CATERPILLAR, di Kōji Wakamatsu

Guerra cino-giapponese. Il soldato Kyuzo Kurokawa fa ritorno a casa, ma terribilmente mutilato. Decorato come eroe sul campo ma abbandonato dallo stesso paese che ha servito, toccherà alla moglie Shigeko prendersene cura, assecondando anche il suo inesaurito appetito sessuale...

In alto i calici e che scorra il saké, perché il "buon" Kōji Wakamatsu non è proprio il primo fessacchiotto che passa. Nome cardine di quella che è stata la nouvelle vague giapponese, divenne uno dei registi più prolifici di sempre - davvero, al più celebrato Miike spetta la medaglia d'argento, il che è tutto dire - regalandoci pellicole che già nel periodo del biancoenero potevano vantare un livello di violenza estremo, basti pensare a Violent virgin, il titolo cardine della sua filmografia.

Poi sapete com'è, l'età passa per tutti e dopo una vita ai cento all'ora (fu persino arrestato da giovane per aver militato in una banda yakuza) tocca tirare un attimo il freno...

Chi lo seguiva da tanto lamentava una specie di mancanza d'ispirazione del nostro, che lo aveva portato a realizzare dei titoli non all'altezza. Ma quando la tua produzione si avvicina alle tre cifre, credo sia umano terminare le cose da dire.

Fu per questo che Caterpillar divenne in titolo evento.

Per il suo film della rinascita. Wakamatsu scomodò il nome di Edogawa Ranpo. A noi italiani dirà ben poco, ma se avete presente Detective Conan... ecco, il nome civile che si sceglie una volta pischellato è la fusione tra Arthur Conan Doyle e quello. Si tratta di uno scrittore che tra molti gialli sperimentò pure la narrativa grottesca, e che con il racconto da cui questo film è tratto rischiò addirittura la censura per come ritrasse la condizione dei soldati che ritornavano dal fronte.

Materiale che scotta e che solo un folgorato come Wakamatsu poteva avere il coraggio di portare su celluloide, tante sono le cose che possono urtare le sensibilità più diffuse. Perché qui non viene risparmiato proprio nulla, per mano di uno che in periodi meno permissivi non aveva paura di sporcarsi le mani.

Basterebbe solo quel troncherino umano che sembra richiamare ... e Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo (*Metallica intensified*) per scuotere i più, ma si tratta unicamente della punta dell'iceberg di tutto ciò che lo spettatore dovrà affrontare. Stupri, bombardamenti, leggi marziali e sottomissione psicologica... tutte cose secondarie ma che scavano durante la visione e che offrono uno spaccato di quella che era la vita e la visione della stessa nel Giappone dell'epoca. Il che dovrebbe farci riflettere sul coraggio avuto da Ranpo per aver messo per iscritto un racconto simile.

Wakamatsu si adagia su un cinema apparentemente più classico ma che non gli fa nascondere la sua natura puramente anarchica per una pellicola che vuole dare contro al potere e agli antichi lignaggi che hanno caratterizzato una nazione. La stessa che non ci pensa due volte a eleggere come "dio della guerra" un povero cristo che arriva mutilato e sordo a casa, ma che alla fine della fiera, sotto l'uniforme e le medaglie rimane un ammasso di carne umana abbandonato a sé stesso e ai cari che dovranno prendersene cura.

E anche lì, tra le mura che vedono lo svolgersi della vicenda, le cose non sono come potrebbero apparire a prima vista. Wakamatsu scava in un rapporto malato che arriva alle estreme conseguenze.

Kurokawa non aera una bella persona, i flashback ce lo mostrano pienamente, e se la guerra lo ha spinto a compiere l'innominabile anche nel quotidiano ha saputo macchiarsi di colpe orribili. E così che nel rapporto con la moglie Shigeko comincia ad esercitarsi una rivalsa continua, fatta di abusi fisici e di potere, che prenderà lentamente piede nella testa della donna.

Nessuno ne esce pulito in questo conflitto. Se lo stato manda a morire i soldati, questi erano già tarati da un regime patriarcale che li portava a trattare le loro donne come stracci e ad avere una visione della vita pressoché nulla e importata su stilemi e concetti che riescono solo a soffocare.

Non c'è un solo vincente in questo racconto, Wakamatsu ci porta sotto gli occhi una storia di perdenti totali che fanno i più forti con chi è più perdente di loro, mostrando una sconfitta a tutto tondo dove le uniche parole veritiere, non a caso, vengono pronunciate dal proverbiale scemo del villaggio, forse l'unico che può riconoscere la follia che si sta consumando intorno a lui.

Una storia che, forse circolando un po' a vuoto nella parte centrale, mette sul banco tutte le proprie carte, senza risparmiarsi né risparmiare.

Wakamatsu non avrà realizzato il film più bello della sua carriera, ma ha dimostrato come, se cercate a dovere, ha ancora le storie giuste che possono assecondare una poetica assurda ed esagerata come la sua. E dopo cento film non è proprio da tutti.

Peccato che pochi anni dopo ci lasciò, investito da un taxy. Una fine che sarebbe stata perfetta per una delle sue pellicole.







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