13 ASSASSINI, di Takashi Miike

Shimada Shinzaemon, samurai dal nobile e glorioso passato, viene incaricato di uccidere il sanguinario Naritsugu, fratello minore dell'attuale Shogun, protetto da un vecchio nemico. Per svolgere il suo compito, raccoglierà una squadra di altri undici spadaccini (a cui si unirà uno strano forestiero) per un totale massacro...

La cosa fantastica di Takashi Miike è che non sai mai cosa aspettarti. Il che è anche un rischio, perché in una produzione di oltre cento film, nella quale ha dimostrato più volte di essere anche di bocca buona all'occorrenza - oltre che di tabacco dentro deve metterne ben poco - il rischio di visionare una ciofeca a volte si fa addirittura alto. Quello che però rimane sicuro è che riuscirà sempre a dire la sua, in un modo o nell'altro, anche se solo sulla carta,

A volte spiazza anche sul pratico.

Perché ammettiamolo, da uno che ci ha offerto yakuza robotici, ripetute e variegate mungiture, oltre all'aver fatto desistere Marylin Manson dall'affidargli la realizzazione di un video, un film cappa e spada piuttosto serioso, rifacimento poi di un classicone, era l'ultimo dei progetti in cui avremmo pensato di vederlo imbarcato.

Invece era da anni che ambiva a realizzare un progetto simile, così normale nella pratica, ma folle visti quelli che erano i suoi standard. Una follia nella follia che si insegue e fa il giro.

Lui, che dell'eccesso ha fatto il marchio di fabbrica, con tanto di titoli che emergono dalla sborra e altre primizie simili, nell'ormai lontano 2010 offrì al mondo un cinema rigoroso, vecchio stampo e che abbandonava ogni pretesa fantastica, senza però rinunciare a quello che era il suo inconfondibile stile. Fu il suo primo film ad arrivare sui nostri grandi schermi - pur con la solita distribuzione ad minchia canis - e quello che coinvolse il numero più alto di spettatori. Perché aveva trovato la formula giusta per poter arrivare a tutti, senza tradirsi mai ma, anzi, trasformandosi.

Perché del film omonimo di Eiichi Kudo mantiene solo la base, sovrapponendovi tutta quella che è la sua poetica e mettendo quindi un ponte fra il vecchio, il nuovo e tutto quello che ci sta in mezzo.

D'altronde dal cinema jidai geki di kurosawaiana memoria deriva il western, sul quale Leone trasferì la sua visione sporca del mondo, dando così le basi a registi come Peckinpah, che si formarono a cavallo delle radure incontaminate per evolvere poi un loro personale discorso sull'uomo e la violenza. Ovvero, tutto quel cinema che Miike ha studiato e assorbito per portare avanti la sua poetica che vede amore e violenza come un binomio irrinunciabile e che qui, nella sua forma più asciutta, trova quasi il modo migliore per scatenare tutti i suoi feticismi.

Abbiamo mutilazioni, combattimenti, violenza e personaggi al limite, ma tutto mostrato con una classe e una maturità cinematografica che raramente si sono viste nella gestione di spazio, inquadratura e sequenzialità. Questo è un cinema di movimento, che fa quasi a meno dei dialoghi per dare agli attori e alla macchina da presa il compito di fare tutto, di raccontare la storia, lasciando allo spettatore tutto il frastuono dello scontro e ciò che può raccontare il sangue col solo scorrere.

Un film simile non poteva che essere la commistione perfetta di quanto già detto, improntando la struttura derivante dal cinema giapponese insieme a tutte le commistioni che ne implicarono la naturale evoluzione. Si ha così una pellicola sì classica, ma dura, estrema a suo modo, che non ha paura di mostrare e mostrarsi, osando stando però dentro quei rigidi paletti dettati da questa nuova forma.

Ne risentono forse i personaggi, molti sacrificati per ovvi motivi numerici, e i dialoghi, che non si fanno decisamente memorabili - ma questo non vuole essere un film verboso. Manca anche tutta la sovrastruttura che stava anche nel Miike più inaspettato, che aveva sempre avuto un occhio particolare verso la realtà e le sue ossessioni, e che qui si concentra sul periodo storico di pace giapponese che vedeva molti samurai senza lavoro, uomini di guerra in periodi in cui le katane rimanevano rinfoderate. Miike saluta a modo suo nel sangue un periodo storico che diede, con tutti i pro e i contro, l'avvio verso quello che sarebbe diventato il Giappone moderno.

Un Giappone ancora impossibilitato a scrollarsi di dosso la figura del samurai e del suo codice dell'onore, che spesso imprigiona le persone e fa risentire di quel gap culturale tipico dei popoli che in pochi secoli hanno avuto l'evoluzione tecnologica e sociale che nel resto del mondo si era attraversata in un intero millennio - basti ricordare la scena de La sfida del samurai dove l'antagonista veniva con un'arma magica, una pistola.

Non è un film su cui c'è molto da dire. E' una semplice meraviglia che chiede di essere vista e punta direttamente alla pancia dello spettatore, al di là del suo gradi di malizia, offrendo sana carneficina immersa nell'eleganza che solo il cinema più esperto riesce a dare.

E Miike è tutto questo.

Un nuovo titolo cardine della sua sterminata produzione e, forse, il modo migliore per iniziare a scoprire la sua (il più delle volte) straordinaria cinematografia.






Commenti

  1. Che bellezza questo film, ho amato tutto, anche le mucche esplosive ;-) Ho passato un periodo in cui guardavo questo film una volta a settimana (storia vera), anzi solo a leggerti mi è tornata voglia di rivederlo! Cheers

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  2. Di Miike questo è il mio preferito, ma sono tanti (molti sto vedendo in questi ultimi anni) i suoi, difficile scegliere, anche perché simili ma tutti diversi e unici a modo loro ;)

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    1. Forse questo è uno dei più "equilibrati". Estremo e iperviolento, ma anche molto classico e asciutto.

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