CHARLIE SAYS, di Mary Harron


Susan, Patricia e Leslie sono tre ragazze facenti parti della cosiddetta "Manson Family", detenute nel braccio della morte in attesa d'udienza per i crimini commessi. L'assistente sociale Karlene Faith si prende il loro caso, nella speranza di riuscire a far comprendere loro la gravità delle azioni commesse...


Si dice che gli anni Sessanta siano finiti quella notte a Cielo Drive, dove la Manson Family commise il brutale omicidio di Sharon Tate nella villa di Roman Polanski. L'America della controcultura hippie vide il marcio che cresceva dentro di sé e Charles Manson trovò in qualche maniera la notorietà che aveva sempre ricercato. Da allora il "mito" di Manson ha attraversato il paese stellestrisce sottopelle per decenni, basti pensare a un'icona musicale come Marylin Manson, o al fatto che comparve addirittura in uno speciale di Natale di South Park e pure in Once upon a time in... Hollywood di Quentin Tarantino.

A questo giro ci pensa Mary Harron, che aveva già ritratto la lucida follia di American psycho e The notorious Betty Page, insieme alla fida Guinevere Turner, continuando la sua opera che parla di un'America che sembra aver perso la bussola sotto un apparente benessere, celebre del proprio passato punk - la Harron fece parte di diverse band e intervistò i Sex Pistols.

Non è un compito semplice, perché quella di Manson è una figura sfociata nel mito in più di una inquietante maniera. L'assassino ricevette lettere dagli ammiratori per tutta la durata della propria carcerazione e negli ultimi anni di vita una giovane ragazza chiese addirittura di sposarlo, facendo esplodere l'ovvia polemica.

La Harron decide di tagliare tutta la parte relativa al Manson pre-family e si concentra sul punto di vista della nuova arrivata, introducendola insieme allo spettatore in quelli che erano i riti e le filosofie di quel gruppo ai margini della società. E sorprende per l'accuratezza nel mostrare la filosofia e il succedersi degli eventi, precisi al millesimo, tanto che la prima parte riesce a divenire particolarmente immersiva grazie anche allo stile scarno, quasi documentaristico, che mostra come un soggetto simile sia riuscito a far presa su delle giovani menti in quello che era un periodo storico dove le nuove generazioni stavano affrontando uno dei più grandi distacchi della Storia.

Manson ebbe una vita ai limiti, figlio di padre ignoto e accompagnato da una madre che egli stesso definì una prostituta, conobbe la criminalità fin da giovanissimo e durante i periodi di detenzione si appassionò alla musica, desiderando di sfondare come musicista. Il film mostra in maniera abbastanza lucida la controversa questione che lo vide legato ai Beach Boys e come il fallimento definitivo della sua carriera da musicista mise inizio, in qualche modo, ai terribili atti che lo resero tristemente celebre.

E' così che dopo una prima parte davvero interessante il film comincia a perdersi nella seconda, nel momento in cui la presa di Manson si fa sempre più efferata e quando, dall'altro lato temporale, le sedute della dottoressa Faith portano uno spiraglio di coscienza le tre ragazze, fino a quel momento ancora ossessionato con la figura del loro messia.

Il risultato è quello di un film più interessante che bello, rischio tipico di ogni biopic, che nella sua elegante scelta di tagliare fuori proprio i momenti più cruenti non riesce a dare il pugno in pancia che una situazione simile richiederebbe.

Si capisce che Manson, tra le molte cose, era una persona che in tutto quello vide il riscatto per ciò che non era riuscito a essere in vita. E che quelle ragazze così devote erano persone fragili che avevano solo bisogno di essere amate, tanto da scambiare per amore quello che Manson aveva loro da offrire, un posto che le faceva sentire accettate al contrario della civiltà che avevano lasciato. Ma se tutto questo risalta quando sullo schermo compare la dichiarazione scritta di una delle tre, allora...

"Io ho solo accolto ragazzi pieni di amore e vita. Il male che avevano dentro glielo avete insegnato voi", disse Manson durante il processo. Perché anche nei periodi in cui splende il sole, le ombre si fanno sempre più scure.

PS: sulla sua falsariga, consiglio il libro Le ragazze di Emma Cline, davvero molto bello.






Commenti

  1. Evitato senza troppe esitazioni, anche perché di Mason mi frega zero.

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    1. E qui sbagli, perché - a suo modo - è una figura molto interessante.

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    2. Ma sì, però è risaputo, cioè anche basta, era un assassino, come tutti quelli della setta, plagiati sì, ma inconsapevolmente non credo..

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    3. Più che altro va capita la vita che ha fatto, è stato il rovescio della medaglia del sogno americano e la zona d'ombra della controcultura. Tutto questo ovviamente non toglie peso ai suoi orrendi crimini.
      Andrebbe studiato meglio anche il profilo dei suoi seguaci, cosa che nel film fanno abbastanza bene.

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  2. Mi è sfuggito, vedrò di recuperarlo. Comunque i 20 minuti di "C'era una volta a Hollywwod" che descrivono la setta sono inarrivabili, horror puro. 20 mimuti straordinari di un film che mi ha deluso profondamente.

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    1. Al di là del parere personale lì, come giustamente dici, è Cinema. Qui si cade nel classico tranello da biopic, un peccato visto il materiale originario e la bontà d'intenti - e un bravo attore come Smith.

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  3. Hai detto assolutamente bene questo film è più interessante che bello. È come guardare una ricostruzione di un caso di cronaca. Ho notato che in tutti i film su Manson succede questo, probabilmente perchè è una storia così inquietante e intensa da arrivare come un pugno allo stomaco. Ho Le ragazze di Emma Cline da un po' e mi ero assolutamente scordata che fosse ispirato a questo, forse è giunto il momento di leggerlo! XD

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    1. Quel libro sì, vale assolutamente la pena!
      Ma ciò che dici purtroppo è tipico di molti biopic, motivo per cui è un genere che non bazzico spesso...

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