SUICIDE CLUB, di Sion Sono

Cinquantaquattro liceali, dopo essersi prese per mano, si suicidano buttandosi sui binari della metropolitana di Shinjuku. Nel frattempo, in tutto il Giappone cominciano ad avvenire degli strani suicidi, mentre un gruppo di idol bambine, le Dessert...

Se dovessimo scegliere il cineasta più scoppiato del panorama giapponese - che di scoppiati se ne intende, e pure parecchio - la prima scelta sarebbe sicuramente quella di Takashi Miike. Per la medaglia d'argento senza alcun dubbio credo che tutti si metterebbero a gridare a gran voce Sion Sono.

Che poi, vi immaginate il poveretto quando deve presentarsi? 

"Piacere, sono Sion Sono, cioè, sono Sion, Sono sono... ok avete capito!"

Buddhanate a parte, il nostro si fece le ossa prima come scrittore e poeta, poi come regista. Il film che lo fece conoscere a livello internazionale fu proprio questo Suicide club, conosciuto anche come Suicide circle, che da noi occidentali riscosse un discreto successo tra gli appassionati, ma che in Giappone è considerato un vero e proprio oggetto di culto, tanto da aver dato origina a una trasposizione manga e a un romanzo scritto dallo stesso Sono, cosa quasi unica per un film d'autore di questa portata.

Tra l'altro, la mia generazione ne è venuta a contatto diretto senza saperlo innumerevoli volte, dato che Nonciclopedia ne ha usato una sequenza sulla pagina degli emo - la sesta sulla destra.

Si tratta del primo tassello di una ipotetica trilogia tematica sulla solitudine e l'alienazione nella società giapponese, e qui sta il primo grande gap per gli occidentali che vogliono interessarsi alla cultura nipponica: è così legato a un sentire così tipico e intrinseco che per chiunque venga fuori dai confini del Sol Levante può dirsi quasi incomprensibile. Anzi, non mi stupirei che molti, nel vederlo, lo possano considerare solo un mero voyerismo per sadici.

Senza negare che lo stile di Sono sia molto incentrato sulla violenza e tutto ciò che ne consegue. Anzi, per lui la violenza è quasi direttamente collegata agli istinti primari dell'uomo, così come l'amore, se non addirittura di più.

Va da sé che il Giappone è un paese che col suicidio ha un rapporto del tutto particolare, dato che lo contempla sia come infamia che come riscatto - si veda la cultura del seppuku - così come ha un rapporto molto ambiguo con la propria storia e cultura, essendo uno dei paesi che ha un gap di progresso che ancora oggi si fa sentire, così proiettato nel futuro ma al contempo così ancorato alle proprie origini.

L'esempio che faccio sempre è quello di Doraemon e delle sfuriate della mamma di Nobita. Perché no, non è solo un qualcosa di caricaturale, ma fa parte del retaggio stesso del Giappone che prevede l'eccellenza e il senso di dovere da parte delle istituzioni, cosa che nell'avanzamento tecnologico e culturale ha portato sicuramente un disagio senza precedenti. Lì persino la scuola primaria può precludere il frequentare certe università.

Suicide club/circle è quindi un'opera che chiunque sia nato in quei confini vede come propria, un inno alla libertà nella più tragica delle sue forme, uno spietato attacco alla società e al suo pragmatismo. Non per nulla l'unica vera libertà contemplata in una società che ci vuole tutti uguali, uniformati secondo schemi stretti che a tutto fanno pensare meno che alla vera (auto)realizzazione, il suicidio sembra essere l'unica forma che possa garantire la vera libertà, dagli obblighi e delle convenzioni.

Tutto questo, condito con delle sequenze in grado di far rabbrividire il più guercio degli uomini della strada e delle trovate narrative ai limiti del demenziale che fanno capire quanto questo regista non stia tanto a posto con la testa. Perché davvero, a tratti è troppo addirittura per me, ma forse è bellissimo anche per questo, perché per quanto estremo non appare mai gratuito o eccessivamente fine a sé stesso.

Visto oggi, potrebbe far ridere. Si porta due decadi sul groppone e i mezzi sono particolarmente alla bisogna in più di un'occasione, oltre al fatto che la recitazione non è fatta proprio da primi della classe.

Ma il senso di oppressione, il grido disperato che ne esce... beh, quello è ancora più attuale che mai.

Così come quel gruppetto di idol che cambia sempre nome, particolare non lasciato al caso.

Questo vorrà dire qualcosa su quanto ci vide lungo quel pazzoide.








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