THE ASSASSIN, di Hou Hsiao-hsien


Cina, VIII secolo. La giovane assassina Nie Yinniang ha una reticenza durante il suo ultimo incarico, dove si rifiuta di accoppare il proprio bersaglio nel vederlo in compagnia del figlioletto. Per questo la monaca che l'ha addestrata e allevata, per misurare la sua risolutezza, le ordina di uccidere il cugino a cui era stata promessa anni prima, che ora è capo militare della provincia di Weibo...

Non so come, ma mi ero totalmente perso questo film, targato 2015. Nel senso che nemmeno sapevo della sua esistenza. Il che è strano, perché all'epoca fu salutato da quasi tutti come un nuovo capolavoro del secolo, vinse il premio per la miglior regia al Festival di Cannes e porta la firma di Hou Hsiao-hsien, regista di film di culto come Millennium mambo, che qui portò la propria poetica all'apice - anche se il premio principale andò al Dheepan di Jacques Audiard - coniugandola con un cinema che sembra distante anni luce dal suo solito modo di trattare la materia. 

Perché Cìkè Niè Yǐnniáng dovrebbe essere sulla carta un vuxiapan, genere fatto conoscere qui da noi da Ang Lee con il suo celeberrimo La tigre e il dragone, che consiste nella versione orientale del nostro "cappa e spada" e che porta ai massimo termini quella che è l'estetizzazione della lotta e dove la storia è direttamente collegata a quello che è lo svolgersi della battaglia. Hsiao-hsien invece decide di praticare l'operazione inversa, mettendo tutta l'eleganza che un certo cinema orientale è in grado di restituire allo spettatore ma usando lo scontro come un mero contorno, anzi, quello lo riduce ai minimi termini (sempre elegantissimi - davvero, dopo 'sto film avrete una tale sovrabbondanza di eleganza che alzerete il mignolo ogni volta che bevete) per concentrarsi sui campi lunghi più tipici del western intimista che del vuxia.

Perché Hou Hsiao-hsien è sempre stato il regista dei sentimenti, e agli scontri fisici ha sempre preferito quelli interiori. Cosa che in realtà è un corrispettivo dell'azione di molti film cinesi e della loro meditazione.

Partendo da una novella di Pei Xing, il nostro realizza una pellicola che ha quanto di più possa apparire respingente per il pubblico occidentale, tanto è intessuta dentro alle proprie usanze - e dire che in realtà di parla di una delle prime grandi co-produzioni tra Cina e Taiwan. Infatti solitamente l'effetto più comune è quello di una persona che lo guarda, ne rimane oggettivamente affascinata, senza però capirci più di tanto. 

Non che il film faccia poi molto per essere particolarmente comprensibile, anche se in realtà la trama è quanto di più lineare possa esserci.

Eppure ci sono così tanti dialoghi, così tanti nomi (e fatemi fare un'uscita politicamente scorretta: si somigliano praticamente tutti!) che a una certa il nostro cervello da occidentali medi regredisce ai livelli Scotti-Hunziker, mettendosi a fare l'imitazione con gli occhi a mandolla. 

Eppure, e qui sta la vera forza del film, le immagini sono così belle che è impossibile non rimanerne affascinati. Anche se non si capisce dove il film vogli portare, basta che si continui in quel viaggio, anche se non riusciamo a memorizzare la strada per portarci qualcuno in futuro.

La bella Nie tra l'altro effettua un percorso plumbeo, quasi fiabesco nei modi di raccontarlo, che tutti quei tramacci politico-storici appaiono infine come delle sovrastrutture di poca importanza (anche se la ricostruzione è davvero incredibile) perché appaiono fumosi. La vera intenzione di Hsiao-hsien, come sempre, è parlare dei tormenti interiori dei protagonisti, qui quasi più monoespressivi di Ken il guerriero, ma è quel sentimento mai coltivato e sempre sopito che smuove la storia.

"La tua tecnica è perfetta. Ma non sei riuscita a liberarti della debolezza dei sentimenti."

Questo è il discorso cardine di tutto il film, quello che chiude il cerchio in maniera crudele, composta e - come in tutti i 100 minuti - elegantissima, in un film che su tanti dialoghi agisce prevalentemente sui non detti e vuole sottolineare come i sentimenti possano porsi addirittura sopra i conflitti politici, le scalate di potere, gli intrighi e le guerre stesse.

Non dice nulla di nuovo, come non può dirlo qualunque opera tratta da uno scritto di secoli fa, ma riesce a trascinare lo spettatore in un universo di colori che oltre all'eleganza formale innegabile, e quel frame:rate che oramai sembrano usare anche i cafoni alla Snyder, chiedo allo spettatore una totale fiducia, come della spada di Nie ci si deve fidare. Perché lo scopo principe di questa esperienza visiva è quella di abbandonarsi alle immagini, in una fede quasi cieca e oltranzista, per poter rinascere nel limbo che vuole lasciare a fine visione,

È un po' come andare in montagna. Forse non sai neppure tu perché e lo fai senza nemmeno uno scopo, ma poi ritorni a casa svuotato dal peso della quotidianità e dall'aria dell'alta quota.

Resta il fatto però che siamo davanti a un'opera di estrema bellezza, che forse risente del gap culturale tra occidente e oriente, ma che non può assolutamente lasciare indifferenti anche se alcuni passaggi possono sembrarci nebulosi a una prima occhiata, nonostante la storia che procede in linea retta come il più semplice dei sentieri, che però tanto elementare non è.

Per tutto il resto, ci pensa la bellissima Shu Qi. 

Lei potrebbe stare ferma per tre ore e credo che nessuno si stuferebbe di guardarla - tra l'altro, fu lei la prima scelta per il già citato La tigre e il dragone, parte che poi andò a Zhang Ziyi.






  

Commenti

  1. Ne parlerò presto, comunque posso dire che mi ha messo in difficoltà, abituato ad altro non ho ben digerito questo film affascinante ma strano.

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    1. STRANO è sicuramente il termine più adatto, vago come lui ma che al contempo vuol dire tutto.

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Ragazzi, mi raccomando, ricordiamoci le buone maniere. E se offendete, fatelo con educazione U.U

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