IL POTERE DEL CANE, di Jane Campion

Montana, 1925. I fratelli Burbank hanno il più grande ranch dell'Arizona. Quando George, il più giovane e sensibile dei due, si sposa con una vedova, Phil, rude e cresciuto col mito del mandriano Bronco Randy, si oppone con la propria presenza tossica. Ma...

Sono passati ventotto anni da quando Jane Campion diresse il bellissimo Lezioni di piano, film che sembrava averla lanciata nell'Olimpo dei grandissimi dopo l'ovazione cannesiana, e ridendo e scherzando ne sono passati dodici da Bright star, ultima sua fatica dietro la macchina da presa. In questo periodo di silenzio solo una serie tv, quella Top of the lake con la mia amata Elizabeth Moss, e poi basta.

Ritorna con questo western atipico, frenata pure dalla pandemia di Covid-19 che costrinse tutta la troupe a stare in quarantena in Australia, facendosi distribuire (anche) da Netflix e vincendosi pure un bel Leone d'Oro a Venezia come miglior regia. Mecojoni! 

Per il proprio ritorno in grande stile adotta la storia di Tom Savage nel suo bellissimo libro The power of the dog, un western degli anni Sessanta che arrivò come una specie di rivoluzione nel panorama cartaceo dell'epoca, già sulla via di un tramonto affidato alla celluloide, che prendeva le redini di quello che ne rimaneva per fare una specie di contraltare, fondendolo con le tematiche espresse in quegli anni e rendendolo così un romanzo più moderno che mai.

Che poi, non era veramente un western, ma un romanzo di conflitti familiari e realtà che vengono a galla ambientato tra i mandriani. E lo stesso è per il film. Manca del tutto il feticismo per il paesaggio, il conflitto esterno, l'esaltazione dell'uomo al di sopra di ogni possibile progresso. No, qui l'umanità è rappresentata proprio al ribasso, la civiltà come qualcosa di inarrestabile e i suoi personaggi, uno in particolare, vivono nella più totale nostalgia di qualcosa che sta andando perdendosi per sostituirli al più presto possibile.

E' così che abbiamo un personaggio come Phil, forse uno dei più detestabili che vi capiterà di vedere su grande e piccolo schermo, ma verso il quale non si potrà altro che provare una profonda empatia e compassione.

Benedict Cumberbatch è bravissimo, al suo solito, ma qui compie un mezzo miracolo. Lontano dagli istrionismi di Sherlock o dai panni compassati di Doctor Strange, realizza una delle sue migliori interpretazioni creando un personaggio ambiguo, fastidioso, e compie anche una mezza trasformazione fisica per restituire l'aspetto del machismo imperante e di cui lui è ancora in fiero portavoce - suo malgrado - restituendolo nei gesti, nelle movenze e nelle occhiate. Anche nel modo di parlare, motivo per cui il film andrebbe visto in lingua originale.

C'è davvero un grande lavoro di costruzione dietro un simile personaggio, che si porta sulle spalle tutto il film e che ne dimostra un suo spaccato, o almeno, una propria metà. Lui, l'uomo che castra i buoi a mani nude, che non ha tempo per le scemenze, che vive nel mito dell'uomo più uomo che sia mai esistito, nasconde un velato segreto ed esiste nell'unica ottica di distruggere quello che lui non può avere e che gli altri sembrano raggiungere.

Quello tra lui e la vedova - una bravissima Kirsten Dunst che paga ancora il boomerang Von Trier - è un duello che non si combatte con le colt, ma con la quotidianità, con il saper trasmettere tutto il marcio al più debole. Perché Phil si atteggia da leone, ma agisce da parassita.

Sono questi dettagli a impreziosire il film, anche più del suo valore.

Perché è chiaro che la pellicola della Campion parla più coi personaggi che con la storia in sé e lo fa attraverso dei dettagli che non vanno ignorati. Così come non va tralasciato l'episodio della vivisezione compiuta dal di lei figlio - forse, per certi versi, il vero protagonista, e non perché il film inizia con la sua voce - che segna come a un mondo di forza bruta si sostituì una violenza più suggerita, più infida, come sottolinea la provenienza di entrambi, dai campi di bestiame a quella città/college che evidenziava il progresso di una civiltà che si plasmava su nuovi ideali.

(we are the) Campion segue le vicende con il suo solito occhio elegantissimo, la raffinatezza che la contraddistingue da sempre e che l'ha fatta diventare alfiera di un certo cinema festivaliero che qui prova a sporcarsi di lordura, ma manca la deflagrazione totale che avvenne nel suo titolo più celebre per concentrarsi su un dualismo malato e mai del tutto esplicito, fino a un finale che chiude il cerchio e mette un alone inquietante su tutta la vicenda e il suo futuro svolgersi.

Finale che a me è apparso vagamente in sordina rispetto a tutto il resto, onestamente.

Tutto giusto nella trama e nelle intenzioni, ma pare che la nostra si sia tirata un poco via, lavorando fin troppo di sottrazione e lasciando qualcosa che se non colto del tutto riesce ad essere ininfluente. Quando invece abbandona del tutto le vesti del western per sposare un certo cinema grottesco, con le sue ambiguità. 

Resta uno di quei casi cinematografici che la pandemia con le sue nuove politiche ha "donato" alla piattaforma e che potrà far gioire il pubblico più esigente. Ma da una parte resta una grande storia che per me poteva essere sfruttata in maniera maggiore.

E Cumbercoso entra nel novero degli attori che possono vantarsi di aver sbandierato il pipo.

PS: in una piccolissima parte possiamo vedere anche la Thomasin McKenzie di Last night in Soho, in un film uscito dopo ma girato prima per via dei problemi che tutti conosciamo...







Commenti

  1. Un film che vive di sottintesi, il che andava benissimo per l'epoca in cui il libro venne scritto ( e che voglio leggere a tutti i costi ), meno per un film del 2021.
    Il finale così didascalico mi ha lasciato un po' perplesso.
    Film tremendamente suggestivo comunque.

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  2. Recensione che condivido al 100%, anch'io ho avuto le tue stesse impressioni: film di grande suggestione e con ottime prove d'attori (con menzione speciale per Kirsten Dunst, vista a Venezia in forma smagliante), ma troppo trattenuto per emozionare davvero. Oltretutto, la sceneggiatura della Campion sottrae fin troppo a un libro bellissimo che aggiunge molti significati in più all'unico tema (il femminismo e il rispetto verso i più deboli) messo in scena nel film.

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    1. Per me ha fatto una "sintesi" più che dignitosa. Lei è famosa per essere delicata, la natura morbosa della fine non ha saputo sostenerla al meglio - ho rimpianto la 'scena del dito' di "Lezioni di piano"...

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