CHIEN, di Samuel Benchetrit

Jacques (inizio a grattarmi...) viene lasciato dalla moglie perché lei, a detta sua, ha sviluppato un'allergia cutanea verso di lui. Successivamente perde sia la casa che il lavoro, venendo dimenticato dal mondo. Dopo un'adozione canina conclusasi subito tragicamente, decide di partecipare ugualmente alle lezioni di addestramento, finendo così succube di...

Prima di iniziare, devo fare una dolorosa premessa: non ho mai avuto un cane. Sono più un tipo da gatti e credo che questo abbia influenzato il modo in cui osservo le persone che si rapportano col mondo a quattrozampe. Non sono quello che va in ansia se un cane muore in un film... cioè, mi fa lo stesso effetto che se morisse un cavallo o una persona, per dire, e non ho mai sperimentato la sofferenza di chi perde un amico animale con cui si instaura un simile legame.

Tutto questo è detto senza spocchia o superiorità, sia chiaro. Semplicemente, la vita con me è stata così.

Detto questo, Chien mi è piaciuto moltissimo.

E un po' lo supponevo già in partenza, perché nel sottobosco cinofilo cinefilo dell'internette ha fama di essere un profondo concentrato di disagio e, si sa, dove c'è il disagio io mi butto a pescecane.

Il fatto che il film possa essere catalogato come una commedia non deve trarre in inganno. Siamo dalle parti di un sottilissimo black humour e di puro nonsense e, diciamolo chiaramente, viene spesso l'idea che quelle (poche) risate che riesce a tirare fuori siano del tutto involontarie o scatenate solo se siete dei cinici di merda come il sottoscritto - tipo se trovate divertente la scena del Pechinese del primo Fantozzi, per dire.

Due lunghissime premesse purtroppo necessarie per poter affrontare senza troppi problemi un discorso su un film semplice solo in apparenza, ma sotto molto più complesso e stratificato di quello che può sembrare a una prima distratta occhiata. Ma soprattutto, un film che non è una paracula agiografia sull'affetto canino, ma diventa un vortice di puro pessimismo o marciume. 

Per certi versi è lontano anni luce dal #cinemadeglieccessi, ma per altri è a esso che riconduce.

Samuel Benchetrit in Francia è ben conosciuto. Non solo fu sposato con Marie Trintignant e con Vanessa Paradis, che qui recita, ma è anche un apprezzato autore letterario e teatrale. Così come una persona artisticamente egoriferita, dato che ha curato la versione cinematografica di diverse sue opere letterarie.

Due anni prima si era fatto apprezzare anche qui da noi col carinissimo Il condominio dei cuori infranti, ma questo era oggettivamente troppo per un passaggio sui nostri schermi.

E la locandina è tutto un dire...

Diciamo anche che la Francia è l'unico posto dove avrebbe potuto girare un film simile, che se non fosse per i greci, i nostri cugini d'oltralpe sarebbero dei coreani socialmente accettabili.

Perché in quel poster è riassunto tutto il film, in un solo scatto. E se non l'aveste capito, anche se il sangue è poco, si tratta di un film violentissimo, incentrato sull'annullamento dell'identità e della persona. Una persona buona, che porta il volto di un gigantesco Vincent Macaigne, in grado di portarsi sulle spalle il peso astronomico di un film piccolissimo - anche nella durata - ma che al proprio interno ha un minuscolo mondo.

Cos'è un uomo?

E cos'è un cane?

Tutto ciò che accade sembra essere l'epitaffio della bontà, un monumento alla sua inutilità. Jacques è una persona candida fino a quella che sembra una totale demenza, le cose gli succedono e lui reagisce con una creduloneria assurda, ma non replica, ha quel sorriso costante che pare nascondere una sofferenza. La stessa che lo porta ad annullarsi fino alle conseguenze più inverosimili.

Ci sarà una sola reazione, in pieno raccordo col titolo, per un twist finale di puro sperimentalismo che ribalta la situazione, giocando con le immagini e le sensazioni.

E' un film che non mette nessuno scavo psicologico e così ancorato nel proprio nonsense da poter essere soggetto ad ogni tipo di interpretazione. Spoglio di ogni legame canino, io ci ho visto un invito a ribellarsi, al far valere la propria identità, prima che questa venga sommersa per mano degli altri. E quello dell'identità è proprio il tema - o uno dei - cardine dell'intera pellicola, che gioca alla peggiore violenza disindividuante col proprio protagonista.

Una violenza che mostra poco ma che fa malissimo.

Non ho mai avuto un cane, eppure Chien mio è piaciuto molto. Forse per i motivi sbagliati e forse avrei preferito che approfondisse maggiormente quel discorso sull'identità.

Ma lo sguardo finale di Jacques, e la pesantezza con cui porta in giro la propria leggerezza, non le dimenticherò facilmente.






Commenti

  1. Porca miseria che film angosciante. Lo avevo visto al ToHorror un paio di anni fa e forse ho provato più pena che schifo, guardandolo.

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    1. Ma è un insieme esagerato di tantissime cose, e il bello è che non le fa "pesare" minimamente, ma riesce comunque a inquietare con pochissimo.

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