SPEAK NO EVIL, di Christian Tafdrup

I danesi Bjørn e Luise sono in vacanza nella ridente Toscana insieme alla figlioletta, e lì fanno la conoscenza degli olandesi Patrick e Karin, anche loro accompagnati da prole a seguito. Fatta amicizia e scambiatisi i rispettivi recapiti, i primi ricevono l'invito dai secondi di passare un weekend esterofilo da loro. La gita però non sarà piacevole come previsto...

Se ne sta parlando parecchio di questo film e ognuno sta un po' dicendo la sua. Il che è incredibile perché, se ci pensate, la trama (o il plot, quello che dà l'avvio allo scatenarsi degli eventi) è quanto di più risibile possa esserci, nulla che non si sia già visto altrove.

Però sta mandando in pappa quella parte di internetto che riguarda la sfera cinefila, ergo, questo Christian Tafdrup un minimo di talento deve pur averlo.

Dicevamo che c'è del marcio in Danimarca, e anche se qui i danesi sono in trasferta olandese, dimostrano che ad accomunarli c'è l'essere belli fumini. Qui tutto si scatena negli ultimi atti, ma quanto precede è qualcosa di non meno spiacevole che prepara per la deflagrazione finale.

Già questo spiega che bestia strana sia Speak no evil, il cui titolo è parecchio enigmatico poiché fa riferimento sia al comune "non essere maleducato", sia un riferimento alla scimmietta omertosa del proverbio giapponese. Per tutto il resto, rimane un film del disagio che si prende tutti i suoi tempi, spargendo indizi a destra e a manca, fino a che non si arriverà a ciò che vedremo alla fine.

Nel mezzo diverse cose che mi sono piaciute più di altre e diversi errori grossolani ma... sapete un po'? Quegli inciampi lungo il percorso non li neghi, ma neppure affondano il film.

Credo che quando ciò che mostri sia così potente, nemmeno errori apparentemente da principianti possono rovinarti l'esito finale. Anche questa è una delle stranezze che aleggia in un film malato, perverso, apparentemente similissimo agli altri ma che, con educata crudeltà, offre uno spettacolo quasi unico.

Soprattutto, perché le teorie intorno alla pellicola sono diverse.

Tafdrup (che ha scritto il film insieme al fratello) non offre spiegazioni, non mostra dietrologie pacchiane o troppo esplicite. Ci lascia on uno spiacevole limbo di gran fascino, eppure durante il percorso accenna a molte cose che, riunite, danno un quadro abbastanza chiaro di quello che vuole essere l'intento della pellicola. Sono scene piccolissime, mangiate dall'esagerazione conclusiva, che però mi sono rimaste parecchio impresse.

Anche perché mi è sembrato quasi lampante che a essere presa di mira sia (anche) la famiglia e tutte le dinamiche a essa annesse.

Si tratta di due scene piccolissime, poste quasi all'inizio.

Il padre va a recuperare il coniglietto di peluche perso dalla figlia (che sarà un leitmotiv del film) e, ritrovatolo, resta solo. Una piccola sequenza riflessiva caratterizzata da dei veloci stacchi, seguita dalla ritrovata socialità familiare di un personaggio dal sorriso perennemente stampato in volto, in maniera quasi demente.

E poi la routine giornaliera a vacanze finita, inquadrata con una centralità compositiva perfetta ma che, mentre tutto si muove, lascia loro quasi fermi. 

Due scene che dicono più di molte altre, sostituite subito dalla sessualità quasi inopportuna degli olandesi e che ha uno strano epicentro quando Bjørn viene portato a urlare in quella scena (s)cult - tra l'altro, interpretazione sottile e davvero bella.

L'idea che assale è che, ancor prima di venire distrutti, sia stata una famiglia sull'orlo di disgregarsi da un momento all'altro.

Poi, la serie di puttanate di cui sopra.

Perché diciamolo, l'idea di fare armi e bagagli per andare verso un weekend di fuoco con due emeriti sconosciuti (con tanto di prole a seguito) non appare degna di due persone responsabilissime, senza contare che l'interruzione della prima fuga è qualcosa di così assurdo da far cascare le braccia, pur dando scena a uno dei confronti più tesi, degni di una piéce teatrale.

A questo aggiungiamo che la scena ripresa dalla (bellissima) locandina avrebbe fatto suonare un campanello di allarma a qualunque persona sana di mente, senza bisogno di trovare quella che in Minority report chiamavano "un'orgia di prove" - e che nello stesso film veniva definita improbabile.

Infine, quella sequenza che forse mette in dubbio pure quelli - ma al di là di ogni entusiasmo, Tafdrup ne ha da mangiare di cereali sottomarca prima di essere paragonato ad Haneke, eh.

In quanto spettatori, e grazie a un trucco alla tenente Colombo, sappiamo già che la conclusione sarà tragica. Tafdrup ce lo comunica con il contrasto tra musica drammatica e immagini solari, i cambi scena hanno un montaggio quasi sbagliato e la cura per i dialoghi ed i dettagli è grandiosa.

Forse quanto mostrato (non tutto, almeno) non deriva da errori di scrittura ma da un percorso specifico e voluto, che sottolinea quanto espresso. Bjørn e la sua inadeguatezza come marito, padre e figura virile della situazione, alternato a quella perfezione solo apparente che ambedue le famiglie mostrano e che vogliono rincorrere in tutti i modi, mostrando il terrore e lo sbagliato che aleggia sotto la superficie.

E quella scena ultima, citata in tutte le maniera, che credo si imprimerà nella mente dello spettatore per la crudeltà e l'efferatezza perpetrate - avviso, ci sono pure violente esplicite sui bambini. Il concretizzarsi si un orrore che in realtà ci aveva seguiti fin da subito.

Tra l'altro, questo film fu uno dei primi a essere girati da noi dopo le restrizioni per il COVID. Restrizioni che comunque erano già presenti e che costrinsero il regista a diminuire la presenza scenica nel delirio conclusivo, limitandosi ai soli quattro attori principali. 

Non so voi, ma così, forse, rende decisamente meglio il senso di annullamento che voleva trasmettere.

Un film che, difetti inclusi, non dimenticherò facilmente.







Commenti

  1. Che angoscia. Non credo lo rivedrò tanto facilmente, perché mi ha innervosita oltre ogni dire.

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  2. Fantastico… incredulo fino alla fine.

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