CUT, di Amir Naderi

Shuji è un cinefilo estremista che, a suo modo, si batte per la salvezza del cinema. Un giorno viene prelevato da un gruppo di yakuza, che lo informano di aver ucciso suo fratello, strozzino a loro soldo, per non aver restituito i soldi usati per le sue proiezioni. Al giovane uomo rimarrà da ripagare il debito...

Cosa vuol dire avere una passione?

Si fa presto a dire di "essere appassionati" e capita sovente di incontrare pressapochismo, incompetenza e a tratti anche una certa voluta ignoranza (per carità, siamo tutti ignoranti, ma le carenze si possono recuperare, il disinteresse no) pure tra quelli che vorrebbero rendere quella passione un lavoro.

È un po' come la differenza tra uno a cui piacciono i film e un cinefilo, tra uno che si diletta a scrivere e chi vuole essere uno scrittore, tra uno a cui piace un genere musicale e uno che vorrebbe essere un musicista Insomma, tante sfumature, pure legittime, ma le parole sono importanti e anche capire dove si ponga la nostra attenzione.

Insomma, non tutti hanno la sensibilità all'immagine, non è da chiunque provare qualcosa per un movimento di macchina, per una scelta registica o per come l'espressione di un concetto è stata possibile grazia alla fotografia, a un taglio di montaggio o a come è stata gestita l'inquadratura, ed è legittimo.

Detta così, sembra che io scriva le recensioni con una mano sola...

Amir Naderi, libanese in trasferta nipponica, cerca di interrogarsi in parte su questo con un'opera apparentemente inclassificabile, folle, statica e culturalmente trasformista.

Fare un film "in Giappone" è ben diverso dal "fare un film giapponese", il che comprende questioni etiche, narrative e stilistiche, che possono riguardare gli aspetti culturali ma anche i semplici mezzi usati in ogni territorio. Ma cinefilia arriva a sfiorare anche aspetti simili, ben lontani dal limitarsi guardare una pellicola, ma proprio a capirne i meccanismi interni e  farli propri.

Cut è un film fatto da un cinefilo per i cinefili, una guerra al massacro che parte da una storia intrigante e rende la cinefilia del personaggio il punto cardine per lo sviluppo.

Questo sicuramente allontanerà alcuni ma attirerà altri, proprio per via dei meccanismi interni che "alla propria razza" si rivolgono, lasciando esclusi gli altri, mettendo in scena un personaggio estremizzato in tutto e per tutto, la cui cinefilia non è fermata da condizioni umane inaccettabili e ai limiti dello sfinimento.

Da qui, l'altra domanda: quando una passione arriva a diventare malsana?

Naderi porta al limite i concetto di cinefilia, ma non si addentra mai nella questione. Lascia parlare le immagini e sposa la produzione giapponese in tutto e per tutto, dalla telecamera digitale, alle soluzioni di montaggio fino all'esasperazione dei concetti e delle situazioni, con una particolare dovizia ai dettagli fisici della macelleria umana a cui sottoporrà i nostri occhi.

Cut è un film che si fa carico di argomenti ampi, rimanendo piccolo, ancorato a se stesso. Non ha la raffinatezza di altre pellicole a tema e non osa nemmeno troppo con la brutalità. Resta in uno spazio suo, dà una lezione di tecnica e conoscenza che arriva fino a un certo punto, senza strafare, e a una certa ti fa venire voglia l'avesse fatto per davvero. 

Metafora di un cinema in crisi, perché tutti pensano "solo al divertimento", e che arranca fino al limite per sopravvivere e chiedere di essere guardato. Un fottoto grido d'amore e di speranza perché qualcosa che tanto si ama non muoia nell'indifferenza generale.

Adorerò sempre il countdown finale coi cento titoli, e anche quel sorriso beffardo finale, di un pugno di appassionati che non si arrenderà di fronte a nulla per poter fare quello che più ama.

Certo, alcune cose potevano essere approfondite e una sforbiciata avrebbe giovato ma, come cantavano quelli di Freaks di Todd Browning: «È uno di noi, è uno di noi!»






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