CURE, di Kiyoshi Kurosawa

Una serie di brutali omicidi, caratterizzati da una X tracciata con una lama sul corpo delle vittime, sconvolge il Giappone. Il poliziotto Kenichi Takabe si troverà a indagare su questi efferati delitti, ma... 

Parlare di un film come Cure non è semplice, ma ancor meno lo è approcciarsi alla visione. Questo non per particolari efferatezze o perversioni a cui i giapponesi non abbiano già abituato noi puritani occidentali, ma perché l'alone di cult rischia di far perdere il punto focale dell'opera. Non da meno, da che Scorsese (non proprio il primo stronzo) lo ha definito il film più inquietante di sempre, a suo carico c'è un hype che rischia di affossare il migliore dei risultati.

Vorrei dire che è come quando mi hanno conosciuto dopo aver letto i miei articoli, ma la realtà è che in quel caso nessuno aveva aspettativa alcuna.

La prima cosa da capire è chi sia Kiyoshi Kurosawa. Non un parente di quel Kurosawa, un "semplice" omonimo, ma comunque regista stracult in quel del Sol levante e che con questo film si è caratterizzato come il re del j-horror (tra i vari, è suo anche Pulse, di cui credo avrete visto un dimenticabilissimo remake americano di inizio Anni Zero), per quanto la sua vasta produzioni comprenda pellicole di ogni genere.

Leggenda vuole che l'ispirazione per questo film gli sia venuta dopo la visione di Silence of the lambs di Jonathan Demme, e sul modello del capolavoro con Anthony Hopkins ha strutturato le vicende di questa pellicola di culto adattandole alla sensibilità orientale...

Ed è qui che casca il ロバ, il vero gap che può rendere apparentemente difficile la comprensione di una pellicola a suo modo complessa e profonda, per quanto lineare e senza particolari guizzi di trama nella mera scrittura. Ma è perché narra un orrore nascosto.

A questo poi aggiungiamo una spiccata sensibilità nipponica per i finali mai del tutto chiariti e verso una spiritismo che a noi risulta quasi sconosciuto senza dei basilari rudimenti, ovvero le uniche cose che possono aver reso uno come Haruki Murakami (detto "il Murakami cattivo") così rinomato da noi. Qui, senza le opportune basi, risulta difficile entrare nel corretto mood per assimilare una simile pellicola.

Che tra plot twist improbabili, una linea di thrilling quasi inesistente (ma perché a Kurosawa dell'indagine, giustamente, sbatte quasi meno di zero) mostra il fianco un paio di volte alla prova del tempo, ma mantiene delle caratteristiche imprescindibili che la fanno sopravvivere nonostante tutto agli occhi di chi vuole cercare di capire il torbido insito tra i fotogrammi.

«Chi sei tu?»

Basta questo per comprendere appieno il senso del film. 

Una frase semplice che travalica ogni cultura, ma a cui facciamo così poca attenzione, e che qui diventa il moto scatenante di tutti gli omicidi. Un legame sottilissimo, eppure apparentemente così ovvio.

Con questo film Kurosawa cerca di raccontare la natura umana, le sue contraddizioni e la sua pulsione verso la violenza, direttamente collegata coi segreti che non abbiamo il coraggio di ammettere neppure a noi stessi, ma che fanno parte della nostra umanità. Il mesmerismo, qui trattato forse superficialmente, è solo il pretesto affinché gli orpelli sociali e della coscienza abbandonino i soggetti, in modo che la vera natura insita nell'umana specie si palesi in tutto il suo orrore.

Il protagonista diverrà quindi parte focale per il più inconfessabile dei segreti, scardinando a suo modo la più influente istituzione di ogni cultura. Ma che così diventa anche il grido di una prigionia e dell'inadeguatezza dell'uomo verso l'inesorabile e l'ingestibile. 

Kurosawa con questo suo tassello cinematografico realizza un'opera anticlimatica in tutto e per tutto che accumula tensione nei silenzi sparsi, nel montaggio ridotto all'essenziale e ai lunghi piani sequenza accompagnati da una colonna sonora extradiegetica, dove la musica è fornita dalla presa diretta, dai respiri, dal traffico delle macchine e dal vento, creando un accompagnamento sonoro che nelle (magnifiche) sequenze oniriche arriverà a un totale disfacimento. Piccoli dettagli che contribuiscono a impreziosire un film non spudoratamente bello come potrebbe essere, ma che si rilascia man mano e cresce col tempo, offrendoci un ritratto impietoso e cinico dell'umanità.

Perché assassini lo siamo tutti. E dentro di noi c'è una complessità che non siamo in grado di accettare né di comprendere appieno. E quando questa si scatenerà, per il costrutto sociale che abbiamo edificato non ci sarà più scampo o speranza di sopravvivenza.

Mentirei se dicessi che l'ho adorato fin da subito. Anzi, a fine visione mi ha assalito un «E quindi?» selvaggio. Come già detto, è un film che cresce col tempo, poiché forse la sua ricchezza non sta nell'insieme quanto nella somma delle parti.

E svolge il compito del vero orrore: non tanto spaventare per il gusto (sacrosanto) di farlo, ma raccontando verità che non ci possono piacere.






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