MADS, di David Moreau
Sempre meglio di quell'altro David, David Slade, che si è rovinato da solo, ma di lui parleremo più avanti. David Moreau più che altro si è messo a seguire le cattive compagnia, un tal Xavier Palud, col quale ha esordito con Them, per poi andare dietro a Jessica Alba con The eye. E se fai il remake di un horror cinese (un horror cinese di culto, tra l'altro, quello dei fratelli Pang) un po' pirla devi esserlo per davvero.
Il divorzio artistico venne dopo le pernacchiate ai Razzie, e da allora non si è ben capito che fine avesse fatto. Ha diretto una commedia romantica, poi la trasposizione di un fumetto per ragazzi e un altro film fantastico, a cui noi italiani abbiamo aggiunto l'inquietante sottotitolo un cucciolo da salvare. Tre film impersonali tutti girati a distanza di quattro-cinque anni l'uno dall'altro, per quasi una decade d'esistenza artistica allegramente buttata nel cesso, non viene in mente nessun altro modo per descrivere un periodo simile.
Non stupisce quindi che a una certa se ne sia uscito con questo MadS.
Che non è un biopic su Mads Mikkelsen, con tutto il rispetto per il mio attore/ballerino preferito, ma un horror girato in un (finto) piano sequenza, arrivato al grande pubblico grazie alla santissima Shudder, nonostante la produzione interamente francese. E qui abbiamo già diversi elementi che mi sembra indichino una storia che va al di là di quella raccontata nel film.
Non ci vuole un genio per capire quanto sia complicato gestire un piano sequenza, e scribacchini ben più qualificati di me potranno elencarvi tutti i percome della faccenda. Mi limito a dire che una ripresa senza stacchi comporta un'organizzazione generale dell'altro mondo, che coinvolge tutti i reparti possibili, complicata dal fatto che il minimo errore da parte di chicchessia costringe a ricominciare daccapo, mentre il comparto tecnico deve adeguarsi alle normali regole grammaticali della cinematografia.
Le composizioni dell'inquadratura come le ottieni se la mdp deve muoversi tutto il tempo? La fotografia può adeguarsi con pannelli e mazzi vari in un movimento pedissequo della troupe? Insomma, tutte faccende che dovrebbero dare in automatico un enorme rispetto per il lavoro svolto, spesso anche al di là del risultato finale effettivo. Che l'uso di questa tecnica però sia parte del lancio della pellicola, dovrebbe suggerire qualcosa - grazie, Graziella e grazie a Sokurov.
MadS alla luce di questo excursus appare come uno sfogo rabbioso di Moreau, come se volesse mostrare a tutto il mondo cosa è in grado di fare, gridando a gran voce di voler riappropriarsi di quella decade buttata alle ortiche, giocandosi in poco meno di novanta serratissimi minuti tutto lo scibile di un certo cinema, le capacità tecniche e anche la gestione dei mezzi degni di un professionista di questo nome. Dite quel che volete, ma ogni passaggio di questo film sbraita rabbia da ogni pixel.
E funziona.
Porcaccia se funziona.
Lo fa nel modo che piace a noi, quello che non lascia spazio a nulla e si mangia tutta la scena, anche se non arriva mai a essere un #cinemadeglieccessi come avrebbe potuto tranquillamente diventare, ma fino ai titoli di coda tiene incollati allo schermo.
Il problema è dopo.
Molti si sono lamentati della sensazione di nervoso che questo film lascia, quando in realtà funziona proprio per quello. Il piano sequenza serve a illuderti di essere nel vivo dell'azione insieme ai personaggi, e dove lo stacco rappresenta anche una pausa per gli occhi e il cervello, una manovra obbligata per la visione, inseguire un tizio con la cinepresa permette l'immersione e l'ampliarsi delle sensazioni offerte dalla vicenda.
Ovvio quindi che fare un intero film in questa maniera appare, al di là degli sforzi complessivi, un mero vezzo, soprattutto perché dietro alla tecnica non vi sta nessun discorso che provi ad elevarla. E fin qui non è minimamente un problema, perché se da un film come MadS ci aspettiamo la spiegazione sul senso della vita, forse il problema non sta proprio in quanto stiamo guardando, ma poi ti domandi il perché di tante altre piccole cose.
A cominciare proprio dalla tecnica adottata...
Il piano sequenza infatti porta tutto sul tempo presente, secondo dopo secondo, risulta così a dir poco incredibile il fatto che in tempi dalla rapidità quasi sospetta si abbia la risoluzione e la coscienza di tutto quello che accade, così come il turn-over dei protagonisti a una certa impedisce che (o meglio, non è incentrato perché) si chiuda veramente un discorso specifico su di loro.
Senza contare poi quella questione sulla gravidanza indesiderata che non è sfruttata ai fini orrorifici (almeno non dà il fastidio che ha saputo scaturire A classic horror story sull'argomento) e la promiscuità femminile è sempre poggiata sul lato sbagliato della pentola, questione che al giorno d'oggi appare leggermente vetusta e, diciamolo, di cattivo gusto.
E non ditemi che in tutti quei tempi di sosta attui a segnare una parvenza di realismo nel famigerato piano sequenza non c'è stato spazio per qualche dettaglio in grado dare una parvenza di tridimensionalità al tutto.
Insomma, pur con qualche robetta da rivedere David Moreau fa il suo ritorno in grande stile sulle scene, desideroso di rimanerci, e noi speriamo continui su questa strada, migliorandosi sempre di più.
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