HOW TO HAVE SEX, di Molly Manning Walker

Una volta conseguita la maturità, le amiche Tara, Em e Skye fanno una vacanza a Malia, sull'isola di Creta. Tra festini, balli, alcol a fiumi e amicizie improvvisate, progettano il loro futuro, soprattutto Tara che vorrebbe perdere la verginità durante quella vacanza...

Prima di questo esordio, la giovane (più di me... maledetta!) regista Molly Manning Walker si era distinta nei vari festival con il sentito corto Good thanks, you?, che poneva l'attenzione in maniera delicata sul tema del consenso, seguendo la giornata di una vittima di abusi sessuali che si ritrovava a percorre l'intricata jungla processuale della denuncia.

La tematica deve essere molto cara alla cineasta, perché giocoforza finisce per condire la conclusione di questo suo lavoro. Come lo fa e la maniera in cui arriva sono tutti fiori all'occhiello di un film che, nella sguaiatezza delle sue protagoniste, offre una delicatezza rara.

Girato con lo stile solito di un certo cinema indie da Sundance (che, qualora non l'aveste capito, non sempre apprezzo - ma si tratta unicamente di una questione di giusto personale) la Walker ci offre il ritratto di tre semi-giovanissime in una vacanza lontano da tutti e dalle responsabilità, loro che si stanno affacciando sulla "vita vera" e che in quei sette giorni di puro svago vedono un limbo prima che gli obblighi che condurranno sul sentiero dell'essere adulti si concretizzino.

Sono gli scampoli di una dimensione infantile che non tornerà più. Tutto deve essere folle, esplosivo ed esagitato, perché frammenti di distruzione hanno comunque modo di entrare anche lì. Sarà proprio chi colpiranno le schegge a rendere questo film un gioiello di scrittura e costruzione, perché il miglior narratore è proprio quello che non ha bisogno di urlarti in faccia le cose, quello che, magari parlandoti d'altro, riesce comunque a farti recepire il messaggio.

La Walker ce la fa. E senza ricatti morali o slogan vari. 

Già questo basterebbe per esserle grati. Aggiungiamo poi che scrivere di un gruppo di giovanissimi senza farti venir viglia di ammazzarli uno ad uno non è un talento che possiedono tutti, e tanto basta per un risultato più che ottimale, per quanto mi riguarda.

Soprattutto perché questo è un film giocato sui corpi, proprio in senso lato. Non solo per la mera questione della verginità di Tara o per le inevitabili concessioni sartoriali dei vari outfit, bensì per il repentino scontrarsi con gli altri, per la sessualità esibita e il modo in cui questa può influire sulle vite. C'è un desiderio latente in ogni scena, la macchina da presa ritrae il triello in letti stretti condivisi e spazi che a malapena le contengono; anche negli esterni festaioli le strade a malapena sono sgombre. I vuoti avvengono solo nelle comunicazioni nefaste o nelle situazione ambigue. 

E il vuoto è soprattutto interiore.

Ma senza moralismi di sorta. Alla Walker proprio non interessano, fortunatamente. 

Ciò su cui si concentra la regista è la crescita, la consapevolezza di quello che sta succedendo e, cosa ancora più bella, il sentirsi diversa. Tara, l'unica che non ha un piano per il futuro, che non sa cosa fare della propria vita, che non è stata ammessa all'università e che, in ultima analisi, è ancora vergine. Si può essere diversissimi pur essendo uguali a tutti gli altri, ci si può sentire soli anche in mezzo a mille persone, proprio quando non si vede la propria strada parallela a quella di chi ci sta accanto, arrivando pure a incrinare quella che è un'amicizia che va avanti da sempre.

Lei, così piccola, condizione fisica che si sposa benissimo con le sue sensazioni (casualità o scelta di casting geniale?) trainerà un film-centrifuga che però non perde mai il focus, dimostrazione di una lucidità autoriale già prontamente sviluppata.

E quella vacanza si concluderà con quell'abbraccio nel luogo del ritorno, l'acquisizione della consapevolezza di quanto successo.

Un altro passo verso la formazione di sé, l'ennesima riprova che metabolizzare quello che ci succede non è proprio una passeggiata; un apostrofo rosa in mezzo a tutti i «ci pensano dopo decenni a denunciare» scrollati sui nostri smartphone negli ultimi anni.

Brava la Texas Ranger, ma soprattutto, vera anima del progetto è Mia McKenna-Bruce, centocinquantadue centimetri di energia che scorrazza libera per tutto il film, riuscendo a dare alla sua Tara una gamma emotiva non da poco, valorizzando lo script asciutto ed essenziale. Davvero, nessun'altra attrice mi sembra più azzeccata di lei, un esserino in grado di portarsi sulle spalle la montagna emotiva di celluloide che è questo film, dando al proprio personaggio tutta la stupidità e la fragilità del fine scuola, ma la dignità e la sofferenza che solo certi animi fuori posto posseggono.

Tra le note distorte sparate a tutto volume e le avventure scapestrate, c'è sempre un'anima infranta che cerca di rimettere insieme i propri cocci. 

Saperla raccontare è un collante che dovremmo tutti quanti riscoprire.

Io poi giovane ormai non lo sono più, la sera comincio ad avere sonno, non conosco i nuovi gruppi di tendenza e lo spettro del boomerismo mi sfiora la spalla con la sua fredda mano... ma a questa ragazzetta ho voluto un bene tutto mio.






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