VICIOUS FUN, di Cody Calahan

1983, Minnesota. Joel è uno sfigatissimo giornalista di cinema per l'altrettanto sfigata rivista Vicious fanatic, innamorato da tempo della propria coinquilina - che ovviamente non lo caga di striscio. Dopo una terribile sbronza si ritrova involontariamente coinvolto in una riunione di serial-killer, i quali...

Ho poche, anzi, pochissime certezze nella vita, e una di queste è che gli anni Ottanta hanno oramai sfrangato tre quarti di minchia. Sul lungo periodo Stranger things ha fatto più danni della grandine e per questo i fratelli Duffer si meriterebbero di ricevere così tante pacche sui coppini da far dimenticare loro la tabellina del due. E sono stato generoso, vi avviso.

Decennio che vai, revival che trovi, d'altronde. Ma possono esistere anche dei fortunati casi, pure fuori tempo massimo, dove questa particolarità non ti fa maledire Netflix e tutte quelle amebe nostalgiche di un periodo che non hanno mai vissuto.  

Vicious fun è proprio uno di questi casi.

Pellicola misconosciuta e da noi ancora inedita, ha inoltre lo strano merito di possedere una delle valutazioni più alte in assoluto su Rotten Tomatoes, l'indice di gradimento cinefilo online. Non che sia un brutto film, chiariamoci, ma al netto della sua riuscita non mi sono mai spiegato questo suo "successo", fermo restando che quella di Cody Calahan è una pellicola divertente, divertita, ben calibrata, con un ottimo ritmo e che non annoia nemmeno per un secondo della sua (esigua - un fattore positivo, perché qui abbiamo una certa e la sera ci viene sonno) durata.

O almeno, io mi sono divertito un sacco. Si tratta infatti di un film che conosce il genere di riferimento, lo tratta col rispetto che merita, contestualizzando il suo periodo di massimo splendore e, soprattutto, ricordandosi che forse chi lo sta guardando non è un completo coglione. Perché a fare i demenziali sono capaci tutti, catturare l'estetica e cucirci attorno una storia, e non un'accozzaglia di gag, invece è tutt'altra pasta.

Non siamo di fronte all'escapismo del genere introdotto da Edgar Wright con la sua famosa Trilogia, nel film di Calahan non c'è nessuna dietrologia che vuole innalzare la pellicola. È "solo" un omaggio al periodo d'oro dei b-movie, quelli fatti con quattro soldi e spesso con attori proveniente da qualche scarto di magazzino che però hanno formato un intero immaginario, se non qualche regista oggi molto rinomato, e in alcuni casi evoluti in una vero e proprio punto di riferimento culturale - basti pensare alla blackexploitation, che è cominciata da lì.

Qui Calahan e lo sceneggiatore James Villeneuve (non un parente di quel Villeneuve...), partendo da uno spunto davvero intrigante, riescono a inglobare tutto quello che il cinema horror è stato affinché le sue leggi e dinamiche diventino un punto focale nella vicenda. Non c'è la finezza di un Cabin in the wood e nemmeno una noiosa pretenziosità postmoderna, ma solo quell'alone più ridanciano e genuino, fatto da chi questi film li ha assimilati, compresi e assunti nella loro parte migliore, quella più divertita e outsiders.

Così come i b-movie erano l'antifona della direzione che il "cinema che conta" aveva preso in quel periodo, allo stesso modo Vicious fun va nella direzione opposta a quello a cui ci stanno abituando ultimamente. C'è sì una perizia e una consapevolezza che all'epoca sicuramente mancavano, ma per quanto i combattimenti siano coreografati con tutti i crismi, ad accomunare col periodo di riferimento sono gli effetti speciali analogici, caserecci, tutti artigianali anche nelle concessioni più splatter, come il ritorno al culto del loser.

Si, il tizio imbranato e fuori dai dettami sociali che però, a differenza nostra, grazie alla propria passione che lo fa schifare da qualunque essere estrogenomunito, riesce a farsi avanti in una vita che gli offre poche rivendicazioni. 

Questo è lo spirito che ha caratterizzato, almeno nell'immaginario, un'epoca molto meno idilliaca di come l'hanno dipinta ma dove ancora si riusciva a credere che gli asini volassero e che l'immaginario pop, vero sfogo a quel periodo fin troppo idealizzato, ci avrebbe salvati.

Credo sia stato questo spirito volutamente naif a decretare la riuscita (perché successo, per un film relegato alla nicchia di Shuidder, mi pare un parolone) di questo piccolo film.

Personalmente, ho adorato come sono riusciti a caratterizzare intelligentemente ogni singolo assassino, giostrando queste riunioni segrete come una seduta degli alcolisti anonimi, mi ha fatto ghignare la gag di Utah così come la frizzantezza dei dialoghi. Soprattutto, mi sono piaciuti gli attori, ognuno perfettamente in parte e legati da una bellissima alchimia che ha reso la chimica sullo schermo lampante - la bionda e letale Amber Goldfarb poi è letteralmente divina.

È uno di quei film che, senza eccedere in nulla, fa funzionare ogni singolo elemento al proprio interno e che proprio per questo risulta difficilissimo da recensire: cosa dici quando tutto va bene, in fondo? Puoi solo consigliarlo, magari non salverà la vita a nessuno ma molto probabilmente gli farò ricordare perché abbiamo amato e amiamo tuttora un certo genere...

... se non proprio il cinema in generale.

E scusatemi, sempre senza eccedere, se in questi tempi di magrissima cinefilia è poco.

La visione ideale per rinfrescare delle serate estive che sanno di vecchio, o per rivitalizzare una nottata ignorante con gli amici di una vita.






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