PAST LIVES, di Celine Song
E dire che questo film l'avevo volentieri skippato alla grande, dato che subodoravo con una certa sicurezza il tanfo di disinteresse lontano un chilometro.
Infatti uno come me che ama la morbosità, le zone d'ombra, la cattiveria ostentata e financo la pura esagerazione per il sano gusto di volerla fare fuori dal vaso a tutti i costi, perché mai si sarebbe dovuto interessare a un film piccolo, delicato, con quelle inquadratura aesthetic e i personaggi vestiti come i peggio fighetti newyorkesi da far sembrare Woody Allen uno appena uscito dalla miniera?
Probabilmente, se avessi visto questo film anche solo pochi anni fa non ne avrei colto il clamore. Quasi sicuramente sarei finito con l'evidenziarne la scrittura fin troppo lineare, non elaborata, i lunghi tempi morti ai limiti del contemplativo e gli sviluppi di trama quasi assenti a favore di un'atmosfera che in più di un momento rischia di mangiarsi il film. Ci scommetto quel che volete che l'avrei trovato una furbata (e magari lo è per davvero) ma a diversi giorni dalla visione riesco a scriverne solo ora, e quegli spazi vacanti lasciati dalla sua regista in qualche modo sono riuscito a riempirli, al netto di tutte le hipsterate sparse lungo la sua canonica durata.
La regista Celine Song, che un giorno dovrà rispondere al crimine di aver sposato lo sceneggiatore di Challengers, ha attinto dal proprio vissuto personale per la scrittura del film. Lei come la protagonista si è trasferita da piccola con la famiglia in Canada, è figlia di un cineasta (nello specifico, Song Neung-han) e per intraprendere la carriera di sceneggiatrice si è trasferita a New York. Nella Grande Mela è stata una delle penne dietro la prima stagione di La ruota del tempo per Amazon e ha curato diverse produzioni teatrali, una di queste interrotta durante la pandemia di COVID-19, salvo salire alla ribalta con una produzione de Il gabbiano di Čechov interamente realizzata con The Sims 4 su Twitch. Sempre di riflesso alla sua protagonista, ha conosciuto il marito in una residenza per scrittori e anni dopo le capitò per davvero di rincontrare un amico d'infanzia per cui da piccola aveva una cotta.
Il resto è quanto potete ammirare su celluloide, anche se mi interessa ben poco quanto abbia arricchito la vicenda e quando ci sia davvero di autobiografico.
La questione infatti riguarda unicamente la natura artistica del film e il momento in cui lo guardi, che nel mio caso è coinciso coi miei trentacinque anni. Tre decadi e mezzo che mi vedono come uomo stabile, apparentemente sereno, che ha fatto i conti col proprio passato e si sente arricchito da una gran serie di esperienze - non tutte positive.
Il fatto che mi sia (inaspettatamente) piaciuto non toglie nulla a quei pochi che non ne sono rimasti catturati. La sensibilità personale, unico metro in un'opera che si basa principalmente sui non detti, non può dirsi migliore o peggiore delle altre, semplicemente è stata annaffiata da un vissuto che ne ha favorito una certa angolazione insieme alla propensione personale e al momento di vita preso in essere. La mia è quella che nelle vicende di Nora, personaggio totalmente in antitesi a me, ha trovato un collante, per quanto io non sia figlio d'arte, abbia vissuto quasi sempre nella stessa città e faccia un lavoro molto più ordinario.
Le variabili dell'esistenza però ci riguardano tutti.
Se avessimo fatto altro, come sarebbe la nostra vita oggi? Quanto le nostre scelte hanno condizionato il presente che stiamo vivendo? E quest'ultima è davvero felice come crediamo?
Nora ha preso delle scelte, non tutte in grado di farcela risultare simpatica. Ha sposato un marito che, tra le altre cose, le ha permesso di avere il visto per stare in America, come sottolineano in più punti, e ha messo la carriera e la passione per la scrittura prima di ogni altra cosa. Quando quello scampolo di passato arriva nella sua vita, in un momento in cui la sua esistenza è in uno stand-by relazionale, entrano in campo così tanti fattori che nella sua placidità scombussolano il film come uno tsunami. Tra cui anche il linguaggio, motivo per cui il film andrebbe visto in lingua originale, con l'alternanza di inglese e coreano che determinano un micro-mondo a sé che, con poche battute, determina una situazione molto più complessa di come appare. Basta solo quella scena nel ristorante per restituire tutta la tridimensionalità di un film estremamente posato.
Nora e Hae discorrono, il marito di lei affianco che non comprende quanto stanno dicendosi. Sono di nuovo faccia a faccia, parlando nella loro lingua, isolati da tutto e uniti in quella maniera che potevano avere solo da piccoli, quando si sono incontrati per la prima volta.
Una scena che da sola vale quanto tre film messi insieme.
Poi ci sarà quell'addio, quel pianto finale segnato da mille e più significati, quella vita a cui fare ritorno che ne possiede a sua volta altrettanti. Tutte cose che non vengono mai esplicitate più di tanto ma che non hanno un'univoca interpretazione, sequenze che ognuno deve riempire con una parte di sé, quella del proprio vissuto. Era difficilissimo non scadere nella mera retorica e la Song, al suo primo film, ci riesce perfettamente, creando un ritratto meno idilliaco di quello che può sembrare e lasciando un vago alone di turbata irrisolutezza. Tutto nella maniera più delicata possibile, ma si è trattato comunque di qualcosa che dopo giorni non sono riuscito a scrollarmi di dosso del tutto.
Forse basta questo a decretare la riuscita di un film. O magari, tra qualche anno cambierò idea, chissà, perché la vita mi avrà portato a rielaborare i concetti in maniera completamente diversa.
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