ONE SECOND, di Zhang Yimou
Ci sarebbe anche la questione riguardo The great wall, ma preferisco soprassedere...
Yimou era già noto ai cinefili per film come Lanterne rosse o La storia di Qui Ju, col quale vinse il leone d'Oro a Venezia, e negli anni Novanta curò per il teatro comunale di Firenze il Turandot di Puccini. Sono stati però i combattimenti danzerecci a lanciarlo nel mainstream. Basti pensare che le avventure di Senza Nome, coi loro trenta milioni di dollari di budget, erano la produzione più dispendiosa per l'industria cinematografica cinese dell'epoca.
C'è però ovviamente lo Zhang Yimou più intimista e delicato, del quale per assurdo si parla davvero poco. E' quello che viene fuori con questo film, piccolo eppure immenso, di un'umanità seconda a pochi e che, per assurdo, ha avuto diverse problematiche durante la lavorazione. Non una novità per il regista, che ebbe già diversi tafferugli con l'autorità dopo aver infranto la legge sul figlio unico...
La pellicola fu prima presentata per competere al Festival di Berlino, salvo poi essere ritirata in tutta fretta con la scusa di "difficoltà tecniche rilevate in post produzione", venendo poi distribuita due anni dopo in una versione accorciata e con un finale leggermente modificato per il mercato cinese.
Oltre al vuxia, ciò con cui ogni regista cinese deve prima o poi fare i conti è la rappresentazione di quella che fu denominata la "rivoluzione culturale", il tentativo di Mao Zedong di riprendere il controllo del Partito e dello Stato. Film come Addio mio concubina di Chen Kaige sono un chiaro esempio di quanto ciò significò per il paese, e ancora oggi tutte le opere che la hanno come argomento sono oggetto di controllo da parte degli organi di censura. Furono proprio loro a ritirare questo film, segno di come il periodo storico preso in esame sia ancora oggi molto sensibile agli occhi governativi. La questione ovviamente portò a uno scandalo nella comunità cinematografica per il controllo ancora vigente sulle opere culturali - basti pensare che una scrittrice come Mo Yan dovesse usare il grottesco per aggirare le possibile esclusioni, che comunque non mancarono.
Che questo poi avvenga tramite una storia che parla degli ultimi e dei derelitti, ovvero quelle figure che l'arte dovrebbe abbracciare e rendere tridimensionali in tutte le loro possibili sfaccettature, inneggiando allo stesso tempo al cinema come viatico di salvezza e unione, credo sia qualcosa di incredibile. Ma è proprio ciò che lega tutti i personaggi a rendere questo film bellissimo.
Chiariamoci, stiamo parlando di un'opera semplice, lineare e, forse in virtù delle riscritture a cui il suo autore fu costretto, pure abbastanza canonica nella messa in scena, ben lontana dai guizzi estetici a cui Yimou ci ha abituati nelle sue produzioni più famose. E sarà che la senilità sta cominciando a colpirmi in maniera piuttosto massiccia, ma ho trovato che ogni singolo elemento di questa pellicola funzionasse alla perfezione, restituendo (almeno la parte arrivata a noi) un chiaro affresco della Cina di quel periodo e, allo stesso tempo, una bellissima storia sui legami, siano essi cercati o quelli costruiti nei momenti di difficoltà.
La bellezza di questo film sta proprio in come tutti i personaggi riescono a parlare tra loro, offrendo di minuto in minuto uno spicchio della propria anima fino a imbastire un quadro molto più complesso con poche e semplici pennellate. C'è un'umanità grandiosa in ciò che spinge il protagonista in una missione apparentemente nonsense, c'è della bellezza incredibile nella azione dell'orfana (tra l'altro, quella ragazzina ha faccia da cinema incredibile) e pure nel passato rivelato del proiezionista, la figura più ambigua dell'insieme.
Tutto questo senza retorica o romanticismo spicciolo, anzi, con l'amara consapevolezza di una realtà immutabile e di un destino che non si può rimarginare del tutto, perché il paese stesso è sull'orlo di una china pericolosa che non lascia via di scampo.
E poi c'è il cinema, vero protagonista silente, il motore che muove le azioni di questa storia. Ogni passaggio è implicitamente e minuziosamente legato ad esso. Pure il titolo proiettato non è del tutto casuale.
Si tratta infatti di Brave sons and daughters in the storm, ed è un film di propaganda realmente esistito che ritrae le vicende della guerra di Corea, chiamata anche "guerra di resistenza all'aggressione degli Stati Uniti e di aiuto alla Corea". Erano lungometraggi che si facevano portavoce degli ideali incarnati dal partito comunista, l'unico accesso alla cultura e all'intrattenimento possibile all'epoca, ma nonostante tutto un'occasione di unione, attesa da tutti e vista come l'unico lusso possibile. Un paragone grottesco se accostato al nostro presente di piattaforme e comfort, eppure il film, nonostante la critica fortemente voluta verso il governo, riesce a restituire pure la magia che un momento simile significava.
Poi c'è quel finale dolceamaro.
Niente di consolatorio, ai personaggi non viene riconosciuta nessuna gloria. I tempi però cambiano, il paese stesso muta, ma gli ultimi rimangono serpe tali. Non c'è nessuno sguardo glorioso verso quel futuro ormai passato e nessun romanticismo in queste vite disastrate e senza speranza. Ma oltre il cinema, oltre la politica e tutto il resto, rimane quell'unico legame sopravvissuto al tempo, chiudendosi così nell'unica maniera possibile, concedendoci sempre in quella maniera spoglia di retorica o buonismo un flebile velo di speranza.
Sono i legami che abbiamo costruito a salvare, a rendere la vita degno di essere vissuta, in barba a quello che il partito ci vuole comunicare o promuovere. L'orgoglio del paese sta in un galeotto che aiuta una bambina in un desiderio così semplice e nel sorriso di lei nel rivederlo, anni dopo, diversa ma uguale a prima.
Ci sono tante cose difficili, essere buoni senza diventare stucchevoli è sicuramente una di queste. E Zhang Yimou ce l'ha fatta con un film bellissimo, nonostante tutto.
Vedo un sacco di film tutti gli anni e, nonostante gli impedimenti della vita adulta, questo non ha fatto eccezioni. Ma mai ho visto tanta magnificenza in un'opera che non aveva alcuna ambizione, il cui sussurrare però deflagra più di qualsiasi urlo.
Guardatelo assolutamente.











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