LONGLEGS, di Osgood "Oz" Perkins

La detective dell'FBI Lee Harker dimostra di avere un intuito fuori dall'ordinario, quasi ai livelli di una sensitiva. Per questo viene messa sulle tracce dell'assassino chiamato Longlegs, il quale...

Non ho mai nascosto di provare gran godimento nel fare il bastian contrario a tutti i costi - e no, non è per la questione Chiamami col tuo nome, quello fa schifo sul serio. Però, e qui sta la cosa buffa, certe volte anche noi criticoni proviamo una personalissima tristezza quando non riusciamo a divertirci insieme agli altri. 

Questo Longlegs poi gioca in un campo minato a sé, perché lo attendevo da molto tempo e, da una certa parte, mi è piaciuto tantissimo. Eppure non sono andato in fibrillazione come molti. 

Innanzitutto il mio rapporto con Oz Perkins è assai strano. Del suo netflixiano Sono la bella creatura che vive in questa casa non sono riuscito a superare i dieci minuti, poi durante il lockdown mi recuperai Gretel & Hansel che, nonostante alcune sottigliezze di lana caprina, mi piacque. Vorrei quindi dire che questo Longlegs mi ispirava per affezione autoriale, ma la realtà era la spoilerata sulla presenza di Nicolas "Dio" Cage e tutto l'entusiasmo che aveva generato in giro per il mondo, dove è stato salutato come il film definitivo dell'anno.

Qualcuno lo ha definito il nuovo Il silenzio degli innocenti, e così mi conquisti facile.

La realtà però è leggermente diversa e il mapazzone di accostamenti cool annessi, inclusa la presenza del più debosciato della famiglia Coppola, sono una questione vagamente relativa, perché il film è tutt'altro rispetto a quanto ci hanno fatto credere.

Innanzitutto, va specificata una cosa: non è un thriller. O almeno, non lo è alla fine dei conti, anche se per la gran parte del tempo parrebbe esserlo, quindi il paragone con il capolavoro di Demme va quasi a farsi benedire. Dell'adattamento di Thomas Harris conserva idee di regia molto raffinate e una claustrofobia perenne che, sì, a una certa rendono questo film una vera manna non tanto per gli appassionati del cinema d'atmosfera, ma proprio degli amanti della settima arte in generale.

Perkins ha fatto i compiti a casa. Questo si vede in ogni inquadratura, impreziosita da un uso della fotografia e del sonore d'eccezione, proprio allo stato dell'arte, che rendono i singoli fotogrammi dei piccoli quadri semoventi, contribuendo a una creazione dell'atmosfera che raramente mi è risaltata con tanta efficacia. Longlegs inquieta, lo fa senza sensazionalismi e con una calma apparente che per assurdo ti mette addosso un'ansia incredibile.

Se proprio volgiamo fare dei paragoni, però, non dobbiamo citare il film dove Anthony Hopkins non sbatte mai le palpebre.

A onor del vero, man a mano che la matassa si sbrigliava, ho pensato a Cure di Kurosawa the 2nd, col quale condivide il deragliamento horror e anche una delle diverse tematiche di base. Ma ci sono, ovviamente, delle differenze, e la più sostanziale sta in come Perkins decide di gestire la matrice soprannaturale che a una certa farà capolino.

Se il j-cult voleva parlare alla parte più nascosta di noi, riferendosi ai nostri desideri più reconditi che non vogliamo ammettere alla nostra mente per mantenere una parvenza di equilibrio mentale (e qui sta la grandezza di quel film e la sua sottigliezza), Longlegs spiattella il cattivone senza tanti mezzi termini con tanto di nome e cognome ultraterreno.

Ad essere nell'occhio del ciclone revivalistico ormai tocca agli Anni Novanta e, si sa, in quel periodo l'America fu soggetta a quella passata alla storia come satanic panic - per dire, la risposta musicale di tizi come Marylin Manson e affini era dettata solo per cavalcare l'onda di certa fobia alimentata dai medie di turno. Ovvio quindi che ambientando quel film in quel determinato periodo storico, tocca anche mettere sulla bilancia quel substrato della storia urbana che forse da noi non ha attecchito più di tanto.   

Perkins però ci prova a fare un discorso molto più ampio e, fino a metà, pare che il film non sappia bene da che parte andare. E' tutto un suggerire continuo che, per assurdo, lo fa funzionare alla grandissima, steroidando quella tensione continua di cui sopra col minimo sforzo. Ovvio che quando contestualizzi qualcosa di simile, perde forza, anche se sembro l'unico a pensarla così.

Perkins però piazza dei suggerimenti che lasciano intendere più del dovuto. C'è l'ambientazione dei Ninety che mette alla berlina una way of life che stava lentamente portando verso ciò che sarebbero diventati gli Anni Zero e l'informazione di adesso, c'è l'assuefazione dal lavoro che porta a ignorare i bisogni della famiglia e, soprattutto, quest'ultima, vista come un viatico verso il male capace di creare mostri.

Poi quella magnifica sequenza finale che, pur essendo a conti fatti un lunghissimo spiegone, è quanto di più bello possiate vedere in ambito cinematografico. Un'ouverture di dieci minuti da gola asciutta di raggelante bellezza... ma che alla fine, si discosta poco da quanto già raccontato.

Questione di gusti, perché questo satanismo è stato apprezzato da moltissimi. Però a che pro raccontare qualcosa di così impalpabile se poi vogliamo dargli questa concretezza quasi assassina?

Longlegs è un film bellissimo, badate bene. Ma avrei preferito un male più ambiguo e un Cage meno macchietta, perché per quanto destinato all'iconicità, il suo Papà Gambalunga appare come qualcosa fine a sé stesso, un bello per il gusto del bello che PEMMÉ va bene fino a una certa.

Ma ripeto, un gran film per del grandissimo cinema, a suo modo.






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