THE BUNNY GAME, di Adam Rehmeier

Una prostituta tossicomane viene rapita da un camionista, che si dimostrerà un torturatore e stupratore seriale di donne...

Sicuramente diversi di noi non l'avranno mai sentito nominare per via della sua natura underground, ma The bunny game in realtà è un film abbastanza famoso nel sottoterra cinefilo. Più che famoso, direi famigerato per una serie di motivi, che sono però il fulcro della sua relativa notorietà nel circuito degli appassionati di cinema estremo.

Tanto estremo che tutte le ferite e le umiliazioni subite dalla protagonista a schermo sono... vere. a parte per droga e alcolici, non si sono usati trucchi o effetti speciali, anche quando questo comportava abrasioni, piccole ustioni o ferite con armi da taglio.

La protagonista Rodleen Getsic ci mette anima e corpo in un ruolo ai limiti della sopportazione, ma tanta devozione alla causa proviene da un passato decisamente oscuro e triste.

Pure autrice del soggetto, ha anche firmato la sceneggiatura insieme al regista, attingendo dal proprio vissuto. Le vicende della "sua" Bunny prendono spunto da un sequestro che la povera ragazza subì veramente e dal quale uscì miracolosamente viva. Tutta l'operazione quindi si immette in un processo catartico per superare il trauma passato e dargli forma artistica con questa lunga tortura su celluloide.

Si potrebbero dire un sacco di cose sulla questione, ma si tratta di una faccenda tanto personale e delicata che, anche per la mia natura da uomo, preferirei non metterci bocca, limitandomi solo a quello che si vede a schermo. Già quello basta di per sé... 

Il che ci porta quindi dal regista, tal Adam Rehmeier, l'irreprensibile Rehmeier.

Attivo nel panorama indie e specializzato in film a bassissimo costo che possano risultare il più controversi possibili, ottenne una certa notorietà proprio grazie a questa pellicola, costata poco più di diecimila dollari e girata in meno di due settimane.

Basta dare uno scorcio ai titoli di coda per rendersi conto che il tale è stato un factotum di rodrigueziana memoria poiché, tolto il (ristretto) cast, a contendersi spazio nella nomenclatura generale sono lui, la protagonista e la sorella. E infatti The bunny game è un cinema povero, ridotto all'osso, come altro non potrebbe essere vista la sua natura e le circostanze produttive inevitabilmente necessarie che ha comportato.

Ma ne è valsa la pena?

La storia legata all'attrice protagonista e la sua prova totalizzante sono forse gli unici motivi che potrebbero spingere a vedere il lungometraggio. Perché cosa altro resta a fine visione?

Posto che cercare un senso nell'arte, per assurdo, non ha senso, e che limitare all'espressione di sé anche nei risultati più estremi (che è diverso dall'esprimere un legittimo parere negativa sull'opera finita) andrà sempre contro il mio credo, non posso dire di aver salutato la micro-odissea intitolata The bunny game con una qualche soddisfazione addosso.

Perfettamente conscio di quello che andavo a guardare e speranzoso di una finalità artistica soddisfacente, mi sono dovuto sorbire poco più di un'ora di sadismo efferato, girato live e che si limitava solo alla riproposizione degli atri in sé, senza una qualche rilettura attraverso l'immagine, la storia e il suo innesto.

Nessuno si aspettava la riflessione alternata per comparazione di Truman Capote in A sangue freddo (forse l'unico libro in grado di metterti davvero dal punto di vista di un assassino), così come una qualche riflessione sulle nefandezze umane e l'humus culturale delle zone più disagiate non era minimamente pervenuto, ma resta comunque da chiedersi il perché di questo excursus nel marciume umano.

L'arte ha il compito di mostrare il male e di interrogarsi sulla sua natura per comprenderlo meglio e, anche, poterlo riconoscere e combattere. Ma la crudeltà di per sé,., a cosa mi porta? Non tocca allora rivalutare una roba come A Serbian film, un Guinea Pig a caso o roba del calibro di Anatomy of a knife?

Il fatto che io conosca così tanti film del genere mi fa capire perché mamma voleva mandarmi dallo psicologo da piccolo...

Rehmeier usa uno stile a metà strada tra i videoclip e il cinema verité, regalandoci un gioco di montaggio verso metà film dichiaratamente ispirato dal Tetsuo di Shinya Tsukamoto sicuramente di grande effetto, ma questo non si può dire del resto del film, che appare come una didascalica esposizione di una carneficina e basta.

Un'ora e dieci che mostra già il fiato corto a tre quarti dalla conclusione, facendoti pensare che la magia di montaggio nominata poche righe sopra altro non sia che un astuto stratagemma per allungare un brodo abbastanza annacquato e che nella sua violenza esasperata stufa già a rapimento iniziato.

Tolta la vicenda e il disagio regalato da certe immagini, resta solo la prova di Rodleen Getsic, a suo modo bellissima, un viso e un corpo con "qualcosa" che si imprima nella memoria. E ti viene da sperare che, sì, con questo film, al di là del risultato e dei pareri, possa aver sconfitto i suoi demoni.

Non lo consiglio, non lo rivedrei e cerco di non pensare all'ora e dieci di vita che ho perso guardandolo. Perché io l'abbia voluto vedere rimane un mistero, ma era comunque lecito aspettarsi qualcosa di più.

La Playboy Mansion me la immaginavo un attimo diversa, comunque...






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