BEST WISHES TO ALL, di Yuta Shimotsu

Una studentessa di infermieristica torna nel bucolico paesino dei nonni, che non vede da tanto tempo. Sarà accolta da insoliti comportamenti e avvenimenti inusuali, che porteranno alla luce una grottesca e terribile verità...

Ho sempre pensato di essere una persona fortunata per due motivi: ho avuto il proverbiale culo di nascere nella "parte giusta" del mondo e, per indole strettamente personale, sono capace di mettermi sempre in discussione.

Crescere per me è stato cercare di analizzare queste due caratteristiche, domandarmi i perché e i percome delle faccende, sempre sapendo che a ogni risposta sarebbe seguita una domanda. Il che comporta il non avere replica a molti quesiti che seguono in automatico perché il quadro si allarga pericolosamente.


Ecco, accettare la complessità per me è stato una consapevolezza fondamentale in una vita tutto sommato semplice, per quanto pregna di quotidiane preoccupazioni e intoppi.

Quale sia stata la vita di Yuta Shimotsu non mi è dato saperlo. Però è giapponese e, per quanto sia cresciuto con la loro cultura pop (da adolescente ero un otakuminkia non da poco), della società nipponica tutto sommato conosco solo una minima parte, quella più superficiale, e proprio per questo comprendere del tutto un film complesso come questo mi è impossibile a una prima visione.

Perché Best wishes to all è un'opera molto più complicata e sottile di quanto possa sembrare, anche se la tentazione di bollarlo come un nonsense da mangiariso è dietro l'angolo - e così pare essere stato per una piccola fetta del ristretto pubblico che ha avuto modo di venirne a conoscenza. 

Anche qui, accettare la complessità va oltre a quanto si può comprendere.

L'esordio di Shimotsu non è difficile da comprendere (cosa lo è, quando si hanno o ci vengono forniti gli strumenti per farlo?) ma richiede uno sforzo allo spettatore, nonostante la metafora lampante e a prova di gonzo, perché farsi strada sulla narrazione volutamente assurda a tutti i costi può essere straniante. Eppure il messaggio è cristallino, spiattellato in faccia allo spettatore... nonostante il gap culturale che inevitabilmente fa il palo in più punti.

Non è un film perfetto (ci arriveremo...) ma davvero, nonostante gli intenti siano lapalissiani, comprendere appieno certe dinamiche e comportamenti mi è risultato abbastanza arduo. Facezie, che però hanno a loro modo dato ancora più mistero a un film sì immediato, ma che mi è cresciuto dentro "dormendoci sopra".

Il tutto nasce dal cortometraggio d'esordio del regista, che ha subito attirato le attenzioni di Takashi Shimuzu, leggendario regista del cult Ju-On che in questa sede veste il ruolo di produttore e si è adoperato per fare vedere all'immaginario di Shimotsu il buio della sala.

Il salto dal corto al lungo è sì frequente, specie nel cinema horror (l'ultimo di una lunga serie è Smile, ad esempio, mentre The substance è una variazione sul tema), ma non sempre l'asta del ginnasta arriva a soddisfare i requisiti. Si tratta di una concessione che pretende degli stravolgimenti e un approccio totalmente differente, per gestione del tempo, dei ritmi e del modo di arrivare alla risoluzione. Come fosse il metraggio ridotto da cui Shimotsu è partito non mi è dato saperlo, non avendolo visto, ma lungo il film si avvertono delle inevitabili lungaggini che non si possono propriamente ignorare a priori...

E il film dura poco meno di un'ora e mezza...

A quello poi si unisce il fatto che l'assurdo a tutti i costi non può piacere a tutti (quando ben gestito io lo adoro, ma mi rendo conto che per certi possa essere #toomuch) e che in certi punti pare girare in tondo per il proprio autocompiacimento o ne tentativo di allungare il brodo. Ma anche qui, effettiva mancanza dell'autore oppure nostra, perché il gap culturale si fa sentire? 

A tal proposito... il parto finale, e il fatto che sia fatto proprio da uno specifico personaggio, cosa mi dovrebbe rappresentare? E soprattutto, questa è una pecca veramente grossa, perché imbastire un complotto simile se poi la protagonista, cresciuta tra fieri esponenti del sistema, è totalmente all'oscuro?

Come già detto altrove, il weird punta all'esasperazione di qualcosa che va oltre la logica, ma che rispetta delle determinate dinamiche plausibili. Una svista come questa, per quanto piccola, desta interrogativi.

Ma di che para alla fine sto film?

Semplicemente, di come la nostra società viva nel benessere ma alle spalle di altri. E questo può essere per molti fattori, sia a livello globale che per quello che riguarda il singolo Giappone, colpito alla stessa maniera dall'interno da regole a dir poco assurde, castranti e portate avanti da una mentalità che èaga ancora lo scotto di un avanzamento culturale che lo ha portato a una modernità di facciata con la quale combatte ancora.

Ci sono tanti esempi disseminati, dalla hokkaidiana vita bucolica dei nonni ala frase (che sarà anche la chiusa) della vecchina a inizio film. Tutta la pellicola è permeata di un disagio verso il prossimo e il mondo, e sarà col sacrificio più duro e impensabile che questa odissea nel pantano avrà una parvenza di risoluzione. 

E' però possibile uscire dal sistema, una volta scoperta la sporca verità?

Shimotsu chiude il suo lavoro con un sorriso, vero sberleffo di un ritorno alla vita borghese che è l'ignorare quanto si sa, quanto si è appreso del benessere su cui poggiamo le terga, belli comodi. Come a dire che siamo tutti colpevoli, facendo finta di non vedere e di non accorgerci.

Non ci saranno nuove nascite che tengono.

L'inferno coi aspetta. E noi sorrideremo sempre.

I migliori auguri a tutti, perché ne avremo bisogno.






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