IL MOSTRO DI ST. PAULI, di Fatih Akin
A questo, aggiungiamo l'annosa questione che spinge molti a chiedersi quanto sia lecito ritrarre le gesta di soggetti simili, ma sono dilemmi morali che per me dovrebbero essere estranei all'arte.
Il regista turco naturalizzato tedesco Fatih Akin però è uno che si è sembra sbattuto abbastanza la ciolla di quello che possa essere lecito o meno, realizzando tutto quello che gli passava per la testa e mettendosi anche in diverse zone d'ombra. Ovvio che un soggetto simile non poteva che affascinarlo, dato che è cresciuto nello stesso quartiere ed è stato uno dei fantasmi della sua infanzia.
Prendendo spunto da quanto raccontato nel libro di Heinz Strunk (un cognome che farebbe la gioia di Trapattoni..), l'intento del buon Fatih era quello di riuscire a ricreare un film che, come nel libro, riuscisse a dare una sorta di dignità non solo all'assassino, ma anche alle sue vittime. Ed è qui che entra in gioco un fattore chiave indispensabile per capire appieno gli intenti del film, a partire proprio da quel titolo che da noi in Italia è andato totalmente a perdersi.
Perché parla di Honka e lo fa molto bene grazie anche al giovane attore Jonas Dassler, coperto sotto chili di trucco in grado di trasformarlo - nella realtà, detto nella maniera più etero possibile, è un bel ragazzo - e che gli permettono di regalare una performance davvero oltre i limiti, roba da far diventare il Craxi di Favino poca roba. Ma come il suo attore, anche quel personaggio è, nelle intenzioni del regista, coperto da tutto il resto.
Honka era il terzo di dieci figli e passò parte della sua infanzia in un campo di concentramento, ebbe brevi relazioni molto tumultuose con poche donne e un incidente gli deviò il naso e gli causò un forte strabismo, cosa che minò fortemente la sua autostima già scarsa e lo portò a darsi all'alcol. Si trattava di un personaggio che, come spesso accade in questi casi, non era nato come mostro, ma lo era diventato a causa della Storia e di una vita passata ai margini. Qui entra in gioco la visione di Akin...
Perché Fritz Honka non è che un pretesto e quel titolo, quel Guanto d'oro che dà nome al bar dove l'assassino adescava le proprie vittime, è il vero epicentro deandreiano dove si svolge la vicenda.
Un utero che accoglie spiragli di vita, tutti collegati al passato e in parte anche al presente del paese in cui consumò i suoi delitti. Lo sentiamo dai discorsi fatti dal fratello Siggi e da come il barista racconta la storia degli abitué, tutte figure grottesche che sono un frutto di quello che la Germania passò trent'anni prima, con tanto di reduce nazista. Ed è incredibile come tutto sia giocato sul fattore fisico, come la sgradevolezza visiva la faccia da padrona su quasi ogni personaggio, onde a sottolineare come lo spettatore dovrebbe vederli, a comunicare un degrado visibile già da una prima occhiata. E' importante saper guardare...
Si accostano così anche le figure dei due ragazzini, la bellissima Petra (teniamo d'occhio questa ragazza) e il suo sgraziato spasimante, che diventano il corrispettivo di quanto mostrato nel resto del film.
Uno dei due riuscirà ad andarsene da quello schifo, ma qualcuno ne rimarrà vittima. Schiacciato con tutta la silente violenza di questo mondo.
Akin non realizza un film perfetto, per quanto a mio parere sia stato giudicato erroneamente (ed eccessivamente) da molti. Gioca coi toni dell'horror realizzando un ritratto grottesco e sgraziato di un'umanità senza possibilità di redenzione, calcando la mano sugli aspetti più truci e trovando nel malessere che riversa in ogni inquadratura un certo compiacimento, arrivando a svolte che allungano fin troppo un'idea che trova il proprio compimento tra le righe e si ingolfa strada facendo.
Ma quella serata al bar tra i due ragazzini peserà come un macigno, anche se mostra meno di tutto il resto.
Per capirlo appieno, in mezzo a tutti i suoi difetti, basta saper dove guardare.
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