I DON'T FEEL AT HOME IN THIS WORLD ANYMORE, di Macon Blair

Ruth, anonima assistente infermiera single di quarant'anni, passa le sue stanche giornate ricevendo quotidianamente piccoli soprusi dal mondo. Un giorno casa sua viene svaligiata e, non trovando aiuto nella polizia, chiederà l'intervento di uno strambo vicino, scoprendo così che...

Che il mondo del cinema sia, sotto la patina glamour e artistica, una vera e propria cloaca, lo sappiamo tutti. Non c'è bisogno che qualcuno venga a illuminarci, il #metoo ha già fatto abbastanza vittime. Però ogni tanto capitano quelle storie che un po' ti fanno ricredere. E per quanto sentirmi fare la morale sui valori della vita da dei bellissimi pieni di soldi pagati sostanzialmente per divertirsi me le faccia girare, certe storie d'amicizia possono addirittura arrivare a essere incredibilmente vere e genuine.

Tipo quella tra Macon Blair e Jeremy Saulnier, ad esempio...

In pratica il buon Saulnier aveva esordito dietro la macchina da presa con Murder party, un film che non era piaciuto praticamente a nessuno e che aveva rischiato di fargli terminare sul nascere la carriera. Per sua (e nostra) fortuna il suo amico d'infanzia Macon Blair, senza dirgli niente lanciò una campagna kickstarter per raccogliere i fondi per il prossimo film (da lui stesso scritto) e il risultato fu Blue ruin. Non solo Saulnier fece il film, ma offrì pure la parte principale all'amico sceneggiatore, e il resto è storia: la carriera del cineasta ripartì proprio da lì, divenendo una presenza fissa ai vari Festival (Cannes in primis) e divenendo uno dei nuovi tizi da tenere d'occhio - sono ancora convinto che il suo capolavoro dobbiamo ancora vederlo.

Da lì i due hanno continuato una strettissima collaborazione, passando per Green room fino all'incompreso Hold the dark, che ha permesso loro di saldare le chiappe negli uffici di Netflix, ed è qui che il buon Macon decide di fare il grande passo dietro la macchina da presa, dirigendo un film tutto suo e solo e unicamente suo.

Non suona strano sentire - o ipotizzare, non che ci voglia una cima comunque - che data la permanenza nella piattaforma e il suo ruolo di produttore, Saulnier abbia messo voce in capitolo. Ma per un amico, ovviamente, questo e altro, direi.

Dal canto suo, Macon Blair si ritaglia un piccolo cameo - è l'avventore che fa uno spoiler sul libro che la protagonista sta leggendo - e chiama i fratelli a comporre le musiche. Insomma... circondati di chi ti fidi!

Al di là di tutto, grazie a questa pellicola Blair riuscì a vincere svariati premi ai festival di cinema indie, soprattutto al Sundance, e può vantare nel cast la presenza di un Elijah Wood mai così infrattato in un ruolo - si, ancora più che in Come to daddy - segno che la sua carriera come attore è sostanzialmente dedita a parti che rasentano l'horror e il thriller estremo. Perché questo titolo lunghissino è un po' un'accozzaglia di quanto di più bello possa esserci su celluloide.

Abbiamo l'iperviolenza, abbiamo lo scatenarsi del caos, l'assurdo alla Coen che si sprigiona sullo schermo e un andamento della vicenda per nulla prevedibile... ci fosse qualcosa che si possa prevedere, almeno, perché curiosa è anche la scelta fatta dal nostro per poter portare a casa pagnotta e companatico, in un film che è più pane e salame di quanto potrebbe sembrare, ma che non va preso sottogamba.

Perché forse Blair sarà più trattenuto che in passato con la sua penna - o, semplicemente, è Saulnier ad essere più efferato - ma dietro le risate c'è un messaggio ben più speranzoso del trittico precedente, ma che non mette il mondo sotto una luce migliore.

Blair sembra voler fare un monumento all'inutilità dell'essere buoni, a come per emergere si debba tirare fuori la parte più cattiva di sé, altrimenti le cose non andranno mai bene - anche se il personaggio del poliziotto, pur con molti paletti, sembra far ricredere della cosa. C'è un dialogo nella villa che è l'esempio lampante della crudeltà che questo film nasconde sottopelle, che va al di là della violenza su schermo e delle mani che saltano via, ma proprio per come ogni personaggio segua una piramide di potenza in base a tutto quello che ha saputo mettere da parte.

Ed è qui che il personaggio di Elijah Wood spicca, qualcuno così demente da essere adorabile, perennemente convinto di essere nel giusto e quasi cristallino nella sua idiozia, la stessa che lo ha portato a essere un simile outsider - ma ci fosse uno che non sembri sgusciato fuori da una camicia di forza. Forse uno dei pochi, insieme a una sottomessa Ruth, con cui si riesca a creare un minimo di empatia, l'unico che rimarrà coerente con sé stesso fino alla fine.

I don't feel ay home in this world anymore ha tutto quello che serve nel - lunghissimo - titolo, al di là dello scambio dei generi e della completa casualità con cui le vicende si susseguono (fateci caso, avviene tutto tramite coincidenze), raccontando un mondo che ha perso la bussola in tutti i legami e nell'incontrarsi di due solitudini. E non sarà un finale scontato, quanto una condivisione pura, di un futuro forse più vivibile, ma senza un romanticismo posticcio che avrebbe sicuramente stonato.

Si ride e non ci si annoia mai, in più c'è qualche escursione nello splatter che sicuramente male non fa di certo. E soprattutto, ci sono tutti i miscugli coi migliori generi possibili.

Forse era lecito aspettarsi qualcosina di più, ma Macon da solo se l'è cavata più che bene.







Commenti

  1. Mi era piaciuto parecchio. Finalmente un film capace di far ridere, sì, ma soprattutto riflettere su tutto ciò che possiamo fare per migliorare la nostra vita in primis e lasciare un piccolo segno su quelle di chi ci vuol bene, senza venire necessariamente ricordati dal mondo.

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    1. Ottima analisi anche questa 😬 e ti dirò, conoscendo Netflix, era il "far ridere" a preoccuparmi...

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  2. Lo penso anche io, buon film anche se non memorabile, però mi ha divertito e mi sono goduto tutto, specialmente le prove del cast, tutti molto azzeccati ;-) Cheers

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    1. Il direttore del casting sarebbe da santificare subito!

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