MONDOCANE, di Alessandro Celli

In un futuro prossimo, dopo una crisi climatica globale, Taranto è diventata una terra di nessuno, al cui interno vige l'anarchia post-apocalittica. In questo scenario Pietro e Christian, due tredicenni orfani vissuti sempre fianco a fianco, cercano di entrare nella gang delle Formiche, comandata dal carismatico Testacalda, ma andando avanti...

Capisci di cominciare a diventare vecchio quando fai una sorta di pace col cinema italiano, quello che prima era il grande nemico, e la convinzione si radica ulteriormente non solo nel momento in cui apprezzi qualche pellicola fatta da un certo tuo compatriota, ma pure quando non vedi l'ora di vedere un film che ha le tue stesse natalità. 

La certezza si cementifica quando uno di questi film ha un titolo che ti ricorda una canzone di Calcutta.

Che il cinema italiano stia comunque emergendo - con la solita lentezza, ovviamente, perché in qualcosa dobbiamo sempre farci riconoscere - lo si dice dal 2015, anno in cui uscì un certo Jeeg Robot, ma la conferma avviene sempre di più grazie a registi ogni volta più giovani che, con tutti i limiti e i mezzi del caso, provano a portare sul grande schermo un'idea della settima arte che pur restando ancorata alle proprie radici culturali provi a uscire da schemi che oramai erano prestabiliti fino alla morte (artistica). 

Oggi è toccato a Alessandro Celli col post-apocalittico.

E il tutto si deve anche a un altro tizio che in questa rinascita si è buttato a capofitto, Matteo Rovere, che dopo avecce fatto sognà coi suoi film si è dedicato alla proficua carriera di produttore, con un occhio attento per un certo cinema d'azione, e la Groenlandia pictures, azienda fondata insieme al Sidney Sibilia con cui realizzò Smetto quando voglio.

Cinema indipendente, vero, in un panorama che non si è mai permesso budget stratosferici, ma che cerca assolutamente idee fresche, originali... insomma, tutto quello che da un po' di tempo ristagnava da noi e che aveva portati molti giovani lontani dalle produzioni nostrane.

Tornando al discorso post-apocalittico che tenta di abbracciare, verrebbero da citare Mad Max o Kenshiro che, in salsa tarantese, avrei volentieri ribattezzato Mad Soppressata o U skàffe of the south star, ma la verità è che prendendo le lezioni di Miller e Bronson siamo quasi più dalle parti di una specie di Peter Pan tra pistole e criminali, forte anche di quella che è una crescita dei protagonisti che parla di innocenza perduta e anche ritrovata, ma soprattutto, un racconto di amicizia e voglia di riscatto.

Non mi stupisce la scelta perché Celli ha sempre avuto a che fare coi bambini. Ha iniziato la sua carriera come aiutante sul set della fiction Braccialetti rossi e aveva diretto alcune serie per Rai Gulp, che sicuramente hanno aiutato a gestire tutti quei giovanissimi sul set, dove Borghi è mattatore essenziali in più momenti, ma anche un personaggio di contorno. 

Visto tutto il discorso fatto in precedenza, però, appare anche palese la gioia e l'entusiasmo di essersi scrollato di dosso un certo percorso obbligato (quello de regista è pur sempre un lavoro...) e di potersi dedicare finalmente a qualcosa che si sente per davvero.

Il risultato è un film sì imperfetto, a tratti anche ingenuo, ma con l'energia delle prime volte che si attendevano da molto.

Abbiamo gli inseguimenti, le panoramiche desolate, le scene che sicuramente non fanno bene alla digestione per tutto quello che comportano, ma c'è soprattutto cuore. C'è la capacità di imbastire sequenze d'azione chiare, abbastanza fluide e radicate nel contesto in cui si è voluta ambientare la vicenda, creando un piccolo mondo credibile che non ha bisogno di troppi preamboli per essere compreso e assimilato nella sua cruda interezza.

Certo, forze a tratti ci sono delle lunghezze non necessarie e l'aspetto politico poteva essere maggiormente approfondito, forse un personaggio verso la fine viene fatto fuori senza che chiuda nessun cerchio (ma poi, impressione mia, ma sembra fregare poco?), ma sono le dinamiche interne che contano, l'evoluzione dei due piccoli protagonisti e il discorso sul potere che viene imbastito.

Perché Testacalda apparirà pure come un personaggio carismatico insieme ai suoi "bimbi sperduti", ma è a lui che spetterà l'evoluzione più critica e ambigua e il suo trascinare uno dei due con lui, in una sequenza finale bellissima e dal forte impatto che porterà il vero discorso del film a brillare, lasciando tutto il pathos che ispirazioni simili dovrebbero lasciare.

C'è molta più speranza che in uno scritto di McCarthy, c'è la voglia di immaginare un futuro raggiungibile e possibile e l'energia di pancia di mostrare un mondo basso, senza risparmiarsi nulla, se non il cuore stesso. E la capacità di fare la cosa giusta quando necessario.

Forse non è vero che italians does it better, ma quando ci mettiamo non abbiano alcunché da invidiare a nessuno.

E questo forse è l'avvio per l'ennesima carriera che potrà regalare grandi cose.





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