ROSSO, di Benjamín Naishtat

Argentina, 1975. Claudio, uno stimato avvocato, mentre aspetta la moglie al ristorante ha un alterco con un avventore. Il litigio prosegue fuori, fino alle estreme conseguenze, e...

Avete mai pensato come la Storia possa influire non solo sulle vite delle persone, ma anche l'arte? Perché se è vero che l'arte parla della vita, è pur vero che quest'ultima muta in base ai periodi in cui viene rappresentata. Che ci crediate o meno, è il principio per cui negli ultimi film gli zombi corrono mentre prima erano dei pachidermici lentoni...

A proposito di storia, quella meno cronologica ma facente parte della mera narrazione, vi sconsiglio di guardare il trailer del film, perché chi lo ha realizzato non ha la benché minima idea di cosa sia lo spoiler e, soprattutto, diventa estremamente fuorviante per quelle che sono le intenzioni e i modus della pellicola. 

Il golpe argentino del '76 fu un colpo di stato militare, supportato dalle forze esterne degli USA per la sua natura anticomunista che si opponeva al filone cino-russo, che destituì la presidentessa Isabel Martínez de Perón, destinandola a un esilio in Spagna - dove vive tuttora - per instaurare una dittatura portata avanti dal generale Jorge Rafael Videla. Quest'ultimo nei primi cinque anni di governo (da lui battezzata Processo di riorganizzazione nazionale) si macchiò di crimini atrici contro l'umanità, tanto da beccarsi la bellezza di due ergastoli e cinquant'anni di carcere, che per questioni d'età vennero trasformati nel 1990 in un arresto domiciliare. Sotto la dittatura dell'Hitler de la Pampa fu tristemente celebre il fenomeno dei desaparecidos e dei rispettivi 'voli della morte'.

Non si pentì mai di quanto fatto e rivendicò almeno ottomila delle trentamila morti di cui venne accusato.

Su quest'ultimo fenomeno, cinematograficamente posso ricondurvi a Garage Olimpo o Figli/Hijos del nostro Marco Bechis, oppure a Post mortem di Pablo Larrain.

Noi che all'ignoranza ci teniamo, però, riconduciamo ai Liftiba.

Insomma, basti capire che questo evento, vista anche la sua recente cronologia,  qualcosa che il Paese si porta ancora sottopelle e che vive ancora nelle memorie di chi può ricordarlo. Se dopo un secolo noi pensiamo (o dovremmo farlo...) al fascismo come una ferita ancora sanguinante, immaginatevi in Argentina.

Non c'è da stupirsi quindi se dopo Historia del miedo, il buon Benjamín Naishtat decida di parlare ancora una volta della storia del suo paese.

Lo fa in una maniera strana, all'inizio appena percepibile ma, una volta giunti alla fine, tutto torna e si vede che dietro la realizzazione della pellicola c'è una mente fredda, razionale e che ha capito molte cose di un passato che per ragioni strettamente cronologiche non ha potuto vivere appieno, ma che si riflettono ancora sul nostro presente - eh, noi italiani ti capiamo perfettamente.

Ma bisogna arrivarci e avere pazienza, perché non si afferra ogni cosa fin dall'inizio. C'è una lentezza che chiede di essere metabolizzata, oltre a un fatto iniziale che potrebbe essere perno, e invece affianca la storia dei molti personaggi, ma che al contempo fornisce molte importantissime chiavi di lettura. Perché questo non è un film d'indagine, quanto un'analisi psicologica di un'intera popolazione, a cominciare dalla sua borghesia e di come abbia perso quella bussola morale che contribuì a portare tutti sull'orlo del baratro.

Già quella sfuriata iniziale, che prevede indifferenza generale e sopraffazione morale verso una persona mentalmente instabile e in palese situazione di svantaggio, racchiude quella che è l'anima del film e della sua 'morale'. E andrà avanti a suon di simbolismi e metafore, che inizialmente sembrano fatti a sé, ma a lungo andare prendono tutti una macabra concretezza.

Così anche quell'intermezzo apparentemente inutile dei cowboy (anche se la successiva intervista suona agghiacciante) sottintende gli aiuti americani che Videla ottenne per il proprio progetto, così come tutte le faccende di sparizioni, che siano di personaggi o un trucco di magia mostrato a una serata di gala, alludono a quello dei desaparecidos che seguiranno.

Ma c'è quel titolo, Rojo, e la scena dell'eclisse, che danno vero senso al film. Il rosso del sangue che riverserà le strade del paese, mentre tutti stanno a guardare. Una scena così esplicita che nel suo mostrare solo persone filtrate dona qualcosa di terrificante, perché dai titoli di testa fino a quelli di coda, si ha la perenne sensazione di qualcosa che deve succedere - e che il fattaccio iniziale sia solo un aperitivo a ciò che seguirà.

Naishtat usa lo stile del poliziottesco italiano per portare avanti la sua indagine antropologica, per poi sedimentarsi sui binari di un cinema classico e rigoroso, attento alla forma e che nella sua lentezza non rinuncia a un ritmo raffinato ma uniforme. E a proposito di raffinatezza, mostrare il protagonista con estrema rassomiglianza con il generalissimo che fu, non mi sembra proprio un caso, perché è stato attraverso il silenzio e la noncuranza di uomini simili che fatti simili sono successi.

Avvenuti sulla pelle e la dignità di soggettoni che urlano la ristorante.

Trovateci tutte le analogie che volete, non è difficile.

Un film per me bellissimo ma molto probabilmente "lontano" da noi per quella che è da riassumersi come una mera questione geografica. Ma alla fine, al di là di alcune accortezze che solo chi conosce i fatti del posto può cogliere, una visione di fondo che accomuna ogni paese.

Perché l'odio e la cattiveria, specie se perpetrato con la convinzione di fare del bene, sono purtroppo comuni a ogni essere umano.






Commenti

  1. Mi fido, già l'argomento mi attira. Visto Garage Olimpo, Figli è in lista da un po' (lista che si allunga più delle visioni fatte). Difficilmente dai voti così alti bene.
    Immagino avrai visto "Il clan" di Trapero, a distanza di anni lo ricordo ancora con angoscia.
    Ciao.

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    1. Sentito nominare a suo tempo - anche se quasi sicuramente mi confondo con "El club" di Larraín 😅 questo mi è piaciuto moltissimo, ma credo possa essere fatale per le palpebre di alcuni, anche perché la prima mezz'ora è difficile capire dove voglia andare a parare 🧐 però alla fine...

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    2. Messo in lista.
      "Il clan" lo devi vedere, anni '80, si parla del dopo con i suoi trascichi. Storia vera, molto documentata tramite conoscenti, persone che veramente hanno reso testimonianze nonostante l'omertà e la paura.
      Inutile dirti che è stato un successo al botteghino in patria.
      L'attore principale è un comico, se lo guarderai come spero, avrai modo di apprezzarne la straordinaria bravura.

      Post mortem non saprei, regista ostico per me, ho paura di non apprezzarlo appieno. Ma "El Club" è un gran film.

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    3. Faccio outing: mai visto un film di Larraín...
      L'altro vedrò di vederlo il prima possibile.

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