BERBERIAN SOUND STUDIO, di Peter Strickland

Gilderoy è un tecnico del suono molto affermato che viene convocato in Italia per lavorare su un film horror a basso costo. Ma in quello studio non tutto sembra andare come dovrebbe...
Ho sempre apprezzato come l'arte sappia raccontare sé stessa. Perché se nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, è proprio nel raccontarsi e nello sviscerare le dinamiche che hanno portato a codificare i diversi topoi della narrazione che l'arte impara a conoscere sé stessa, oltre che a farsi conoscere.

Spoiler: non pensate di usare discorsi di questo tipo se volete trombare alla facoltà di lettere...

Berberian Sound Studio è un film  intelligente, così intelligente che una volta finito di vederlo mi è venuta voglia di indossare una giacca di tweed e di ascoltare musica sperimentale che mi fa schifo. E' una pellicola che, mentre stai sfogliando distrattamente un romanzo di Bolaño, automaticamente ti completa gli esami di una qualsiasi università a scelta.

Io l'ho iniziato entusiasta e l'ho finito sentendomi in colpa.

Perché se il film è stato diretto da Peter Strickland, l'irreprensibile Peter Strickland, quello che a diciannove anni adattava Kafka per il teatro, forse l'idea che il problema stia unicamente nella tua testa comincia a divenire una solida certezza.

Poi però mi sono ricordato che conosco un sacco di laureati appassionati di cinepanettoni e che scrivono pultroppo, e quindi ho cominciato a sentirmi in pace con me stesso. E sì, posso affermare con sicurezza che Berberian Sound Studio è una cagata pazzesca, anche senza aspettarmi i dovuti novanta minuti di applausi.

Strickland è uno più furbo che bello. Conosce la materia che tratta e sa cosa fa presa sul cinefilo medio. Intesse tutto un discorso metatestuale sull'arte, sul raccontarla dall'interno... anzi, no, semplicemente racconta come si realizzavano i suoni per i film una volta. Quindi non articola nessun discorso, mostra solamente la realtà dei fatti.

In più rende i titoli di testa della propria opera come quelli della pellicola che Gilderoy dovrà mixare, un film horror a basso costo - intitolato Il circo equestre - del quale non verrà mostrata nessuna sequenza, se non le facce di regista e produttore, che sono quanto di peggio stereotipato su Italia e italiani possa esistere.

Insomma, volendo fare i permalosi, tutto il film è un "gli italiani ci hanno dato del cinema di genere grandioso negli anni d'oro, ma purtroppo sono italiani". L'albionico dubbio di Toby Jones è il co-protagonista de film stesso, che si muove in una produzione scombinata che pare voler dire qualcosa, ma alla fine si limita ad essere un omaggio ben poco interessante sul cinema che fu e la sua lavorazione.

Che ricordo, purtroppo è stato fatto dagli italiani.

Ed è così che lo Stanis LaRochelle de noartri tra uomini volitivi e donne arrampicatrici, insieme a incomunicabilità familiari, morti, ritorni misteriosi e tutto quanto, si muove lungo le quattro pareti dello studio, con similitudini assortite varie.

Quindi cos'è? Un McGuffin? Un cliffhanger? Un'iperbole?

No, erano i miei coglioni che rotolavano.

Berberian Sound Studio dura ottanta minuti ma si arriva a fine visione col fiato corto e la sensazione di essere presi in giro, come la tipa che ti promette una notte di passione dopo che l'hai accompagnata a fare delle commissioni, scoprendo infine che era solo una scusa per farsi scarrozzare e basta.

Perché sì, promette grandi cose, complici anche una squadra tecnica di prim'ordine e uno Strickland che sa oggettivamente creare un'atmosfera ottima, ma alla fine il livello di fedeltà è quello che aveva mia madre quando mi diceva "Tranquillo, non ti faccio nulla..."

Quello che Peteruzzo vorrebbe dire è chiaro, il buon guagliuone de mamma sua cerca di realizzare un omaggio al cinema dall'interno, partendo dalla sua lavorazione arrivando a rendere per immagini (o provandoci al massimo delle sue forze artistiche...) quella soglia che separa il lavoro e la passione dalla pura ossessione, che si ha quando realtà e finzione cominciano a separarsi. Il risultato però è un pastrocchio confuso. 

Ma decisamente stiloso.

Fotografia e atmosfera sono impareggiabili, tanto che per più della metà del minutaggio il film va avanti col pilota automatico. Però già dopo una buona mezz'ora il fiato comincia a mancare e, in barba a tutta la classe e raffinatezza delle riprese, il gioco stufa e ci si chiede il senso di tutto questo.

Si conclude con un nulla di fatto clamoroso, tanto bramoso di cercare una sua particolarità che si rifiuta di avere una coerenza interna, confondendo in maniera non voluta, lasciando solo la vacuità di intenzioni forse nemmeno troppo chiare e non il mistero che aleggia intorno all'arte, che non necessita di chiarimenti, se non interiori,

C'erano tutti gli elementi per un (semi)capolavoro annunciato, ma a forza di giocare al David Lynch dei poveri, Strickland si ritrova col citazionistico pugno di mosche di velluto grigio in mano.

L'animo cinefilo quindi, da una parte, ringrazia. I miei coglioni un po' meno.







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