SULLA INFINITEZZA, di Roy Andersson

Anche qui, un collage di sequenze a camera fissa che descrivono la nostra umanità, con le sue contraddizioni e paure, annunciate da una voce narrante femminile...

Ci pensate a che rottura di balle debba essere vestire i panni di Autore?

Perché da una parte ci si accontenta solo che tu sia la mente dietro una storia, ma dall'altra vieni chiamato così (con la proverbiale A maiuscola) perché hai uno stile riconoscibile, qualcosa che ti caratterizza e ti distingue dagli altri.

Come ti liberi dello stile?

Dello stile ne sa sicuramente qualcosa Roy Andersson (non è parente di nessun Anderson e la doppia s è giusta - il che è assurdo, ripensando alla scene belliche...) ottantenne regista svedese che in vita sua ha diretto solo sei film, tutti grossomodo a cinque anni di distanza l'uno dall'altro, se si esclude la pausa ventennale tra il secondo e l'inizio della sua trilogia tematica sull'umanità.

Forse avrete sentito parlare di lui per il tentativo di dare dignità a Povia, oppure anche per la particolarità d fare film che non hanno apparentemente una trama e che si basano quasi tutti sui questo stock di alta classe di sequenze a camera fissa. Anche in questa sua ultima fatica è così. Non c'è una vera storia da seguire, ci sono sempre quelle immagini che si susseguono, annunciate stavolta da una specie di Sherazade, e quella fotografia che ne enfatizza la profondità.

Il fatto che a pubblicizzarlo ci abbia pensato RaiPlay, osannandolo come esclusiva, fa sorgere qualche ragionevole dubbio...

Da una parte sì, è la stessa cosa del suo film col piccone o degli inquilini depressi - non che il resto sia tutta questa allegria. E da qui, il nostro discorso sullo stile, su quello che vorrebbe dire essere un vero Autore, uno di quelli che non rinnegano sé stessi e non usano la scusa di usare ralenty a cazzo come Snyder, spacciandoli come cifra stilistica.

Da una parte c'è la lontananza di tutte queste opere, che forse visto il loro esiguo numero e il loro vivere in sordina nella nicchia cinefila non fanno pesare questa caratteristica, mente dalla barricata opposta della percezione abbiamo anche la capacità del singolo di variare lo stesso stile su tematiche alt(r)e.

E qui sta anche la genialità della non-scrittura di Andersson, la capacità di una persona di far arrivare il messaggio che vuole senza dire nulla. E di una serie di film che, per quanto simili, alla fine sono completamente diversi sia negli intenti che in quello che vogliono mostrare.

Comincia tutto dallo sguardo.

Se il precedente concorrente di Birdman iniziava con quel vecchio schiumato che osservava l'uccello morto in gabbia (metafora nella metafora?), qui abbiamo una coppia che guarda l'orizzonte. Sta tutta lì la differenza assoluta tra due opere così simili, tra il guardare la morte interiore di ognuno di noi, costretto nella propria mediocrità, al volgere verso l'infinito, verso le storie e la Storia stessa, che farà parte in maniera anacronistica nella narrazione della narratrice. 

"Ho visto..."

Si possono vedere tante cose, ognuna il possibile inizio o la possibile fine di qualcos'altro, o la cristallizzazione di un momento che affronteremo tutti.

Ma anche nella fine sembra esserci il proprio esatto contrario.

Tutto viene appena accennato, ma la grandezza che si coglie dietro a queste microstrutture è innegabile e permea tutto il film.

Lasciate da parte le suggerite beffe di una popolazione soggiogata da un potere invisibile che non può anelare a nient'altro se non al proprio stesso vivere, stavolta Andersson si concentra sul vivere stesso e le sue mille sfumature, non sempre positive.

Si avvale sempre delle solite immagini bellissime e spente, ma pone l'accentuazione dei colori e del loro esprimersi proprio in quelle più drammatiche - il passato nazista, il sangue sul cadavere della vittima - e si lascia andare a inaspettati stralci di felicità. Vede nel ballare di un gruppo di adolescenti, nel vagare di due amanti sopra una città distrutta, in un padre che gioca con una bambina nella pioggia le immagini vere che rendono coeso tutto l'insieme, tutta la bellezza che si racchiude in questi piccoli segmenti.

E sempre con degli sguardi, con un vedere, un osservare e un guardare, concluderà tutto. 

Perché tutto parte da lì. Da quello che si guarda. E probabilmente concluderà, anche.

Ci sarà l'uomo che inizia la narrazione che, in quell'ex compagno di classe sempre sbeffeggiato, vedrà tutte le proprie mancanze. Ma quali, alla fine? Contano davvero? Anche qui, c'è un discorso sullo sguardo molto interessante e solo suggerito, non tanto quello effettivo, ma interiore e dei valori.

E poi la scena - stupenda - della neve.

Che, sì... è solo neve. 

E alla fine, tutto è fantastico.

Anche una cosa normalissima come la neve, anche l'orrore... anche la vita, che nonostante tutto ci sarà sempre e comunque.

Così come ci sarà il momento di fermarsi, il momento in cui la nostra macchina darà panne e ci impedirà di proseguire. Ma come Andersson ci suggerisce, lo stesso stormo di anatre dell'inizio viaggia, in direzione opposta. Perché nulla si ferma veramente, nonostante tutto, nonostante noi. 

Nemmeno noi stessi, come suggeriscono i due studenti in divenire.

Così tanta poesia in due film io non l'ho mai trovata. E così tanta diversità, anche, checché si possa pensare da una prima occhiata frettolosa.

Anche se un film simile, spiace dirlo, suona come una specie di addio... 






Commenti

  1. Non come gli altri, ma bello anche questo ;)

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    1. Ti giuro, a fine visione mi sono sentito piacevolmente svuotato - e non facciamo doppisensi o battutacce, voglio la poesia rimanga intatta.

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