UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL'ESISTENZA, di Roy Andersson

Un collage di scenette e situazioni a camera fissa, nei quali vediamo, tra gli altri, due maldestri venditori di gadget carnevaleschi, un re-generale che parte in combattimento, un comandante destituito e...

Avrete letto spesso qui tra i miei deliri che il cinema è un'arte visiva. Bene, tuttappost. Ma cosa vuol dire con esattezza questa frase?

Si possono fare tutti i pipponi cinefili possibili su una simile affermazione, ma la realtà è che questo detto si presta a tutta una serie di variazioni che passano dal semplice stile fino ad arrivare al linguaggio. 

D'altronde, si può dire tantissimo con una sola immagine, ma a differenziare un graffito da un film ci sono il tempo e il movimento.

Sono cose a cui raramente si presta attenzione, ma fermatevi a pensare alle sequenze storiche dei film e immaginate le tempistiche, lo spazio d'azione della macchina da presa e al loro variare in base alle sensazioni che l'autore voleva trasmettere - Kill Bill, ad esempio, inizia sempre con la medesima scena in ambo i segmenti, ma la presenza di musica del secondo la rende di tutt'altra caratura - ed avrete un concetto di cinema che va al di là del semplice "bella trama".

Non che una trama non sia importante, ma se tutti si sono segati su Drive di Refn e non su Fast and furious, qualcosa vorrà dire.

Però ancora in meno pensano a quanto talento ci voglia nel non-racconto, e a come il grottesco aiuti nel procedimento e tutta la tridimensionalità che assume nella narrazione.

Insomma, l'immagine racconta in molteplici via quello che alberga nella testa del regista.

Tutto questo pistolotto per farvi capire l'invisibile grandezza che si nasconde dietro un piccolissimo film come questo, ultimo tassello di un'ideale trilogia che il regista Roy Andersson porta avanti da quasi vent'anni sull'umanità e il suo vagare sul mondo, qui arrivato alla summa della propria personale poetica.

E sì, è un film che non ha una trama e si concentra tutto nei segmenti a camera fissa che fa susseguire sullo schermo. Eppure... quanta vita, quanta bellezza in questi novanta tranquillissimi minuti, che alla loro maniera non raccontando nulla riescono a raccontare tutto.

E il bello è che lo fanno già dall'inizio.

Basta solo il primo stralcio (tra l'altro, proprio la prima immagine che vedete in alto) per racchiudere tutto il senso profondo dell'opera. Un uomo vecchio, dall'andatura stanca, truccato di bianco in modo che sembri un morto, intento a guardare degli animali morti racchiusi in una vetrina.

A questo si unisce una fotografia magnifica che enfatizza la profondità di campo, e così sarà per tutti gli sketch, caratterizzati dalla staticità e da quelle ombre sul fondo che fanno sembrare tutti i personaggi in bilico su un pozzo. E' come se Andersson volesse prenderci in giro tutti, ritrarci con i nostri tic, le nostre paure e nevrosi, per poi ricordarci che invece abbiamo la nostra profondità. Che ogni cosa è profonda, a suo modo, anche due venditori incapaci di fare il loro mestiere e di rendere inquietante una maschera di Pantalone.

E il potere salvifico della visione - e il tocco da maestro di un autore che ha una sguardi personalissimo suk mondo - sta proprio nel riuscire a rendere divertente delle situazioni che non vogliono esserlo, ma che finiscono per divenire il proprio contrario grazie a questo.

Andersson vede noi tutti così. Degli uomini piccoli e sofferenti che, nella loro tristezza, visti da lontano fanno ridere. Ma compie anche una riflessione sul potere e sulla felicità proprio grazie ai mezzi con cui ha impostato tutta la propria non-narrazione dell'assurdo.

In primo piano, vi è la sofferenza. Sullo sfondo, forse, qualche spiraglio di felicità. Gli unici a esserlo bellamente sono i due amanti spiattellati sulla locandina - l'unico segmento dove in primo piano sembra esserci la vita. Ognuno quando al telefono recita che va tutto bene, quando a regnare sovrana è la tristezza, l'incuranza per la vita (lo sketch del morto in mensa) e la mancanza dei sentimenti. Qualcuno che sembra avere del potere è accennato, fino alla deflagrazione del sogno di uno dei due venditori, che metterà alla luce le identità dei festeggianti in secondo piano che compaiono una tantum. 

Andersson parla di vinti dalla vita e comandanti, che in fondo dimostrano di essere anche loro dei perfetti perdenti, anche se tirano i fili del mondo.

Anche per questo le inquadrature rinunciano alla simmetria perfetta del semi-omonimo Wes e alla loro stucchevolezza, la profondità fa immaginare lo sporco e ogni ripresa è effettuata dal lato che più la deforma, come a segnare il concetto che ne sta alla base.

Un capolavoro inaspettato che vi restituirà addosso un mondo diverso, quasi più leggero, benché consapevole. I grandi autori fanno questo e altro. 

Oltre a suggerirci che, se guardati dalla giusta distanza, facciamo tutti abbastanza ridere.






Commenti

  1. Mi stupisco ancora che all'epoca mi piacque, abituato a ben altri ritmi, ma quando la lentezza è sfruttata così magnificamente rapirti può ;)

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    1. ... e pure trasformarti in Yoda 😛
      E sì, questo film ha una magia tutta sua ❤

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Ragazzi, mi raccomando, ricordiamoci le buone maniere. E se offendete, fatelo con educazione U.U

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