PINOCCHIO, di Guillermo del Toro e Mark Gustafson


Dopo aver perso il figlioletto Carlo nei bombardamenti della Prima Guerra Mondiale, il falegname Geppetto, durante una notte, in preda ai fumi dell'alcol modella un burattino sulle sue fattezze. Una fata dei boschi gli darà vita, e...
"Sorgerai col sole, e camminerai sulla terra."

Basta una frase simile a identificare un regista come Guillermo del Toro? Per me sì. Perché Guillermito bello di mamma non è solo uno con un gran talento, ma uno di quei cineasti che è sempre riuscito a mettere del proprio anche in progetti apparentemente diametralmente opposti alla sua poetica. Un po' come quel Hellboy: the Golden Army, dove la Morte diceva di avere un cuore dove scorre solo polvere. Sono dettagli che mi colpiscono sempre, nel suo cinema. 

Tra l'altro, poi, che ci capa un messicano con un libro italiano ormai di quasi due secoli fa? Beh, molto più di quello che si può pensare. 

Carlo Lorenzini Collodi scrisse quello che è ritenuto un libro formativo per bambini, ma molti - forse perché ultimamente i più conoscono le varie trasposizioni e non lo scritto originario - ignorano tutti i passaggi horror  presenti all'interno, e del Toro non ha mai disdegnato il cinema dell'orrore, anche quello più truculento. 

Poi c'è sempre la questione Netflix che qui adotta la politica dei tempi d'oro: prendere un regista importante con un progetto che non trovava finanziamenti per dargli carta bianca sull'operato. E del Toro veniva dal flop de La fiera delle illusioni, senza contare che cercava di portare avanti questo progetto da più di otto anni.

Insomma, siamo quasi dalle parti di Mank.

Soprattutto perché si diverte a distorcere (non tanto la realtà, quanto una storia notissima) portando a una domanda sempre più frequente... 

Quanto conta la fedeltà in una trasposizione?

Tenendo sempre conto della differenza tra i due mezzi - e della differenza aggiuntiva tra cinema "live action" e animazione, e tra l'animazione tradizionale e la stop motion - io mi limito sempre a dire che se persino Peter Jackson, il fanboy per eccellenza, ha dovuto in parte tradire il materiale di partenza, un motivo ci sarà.

Tra l'altro, il passaggio del testimone porta a un tradimento a priori, giacché la proprietà passa al nuovo autore, ma del Toro stravolge completamente il testo di partenza completando la sua trilogia mancata sulla Guerra - si, quella de La spina del diavolo e de Il labirinto del fauno. Ma l'ambientazione durante il Ventennio porta l'intera vicenda a una nuova forma di lettura, ed è questo che a molti è sfuggito. Perché il Pinocchio di del Toro è ben diverso da quello pensato da Collodi, e non solo per quello che la storia mostra.

Cambiano i tempi e cambiano gli uomini, e anche il concetto di crescita. Se quindi il libro di Collodi era uniformato alla mentalità dell'epoca, del Toro ci porta alla sua visione del diventare adulti.

Tolte le marachelle e i capricci, ci viene regalato un burattino sì infantile, ma comunque consapevole e deciso a fare la propria parte, con l'ingenuità tipica di chi non ha ancora vissuto e sperimentato, ma è abbastanza puro da allontanarsi dagli orrori di un mondo che dal passato ha imparato poco. 

Del Toro lo sottolinea, questo è il suo Pinocchio - una titolazione lo specifica a più mandate - quello di un uomo mai diventato del tutto adulto e che della sua visione infantile ha fatto un vero e proprio lavoro. E' per questo che solo un bambino, con la sua incoscienza, ha il coraggio di irridere il Duce stesso - che tra l'altro, adora i burattini, altra chicca non da poco - e intraprende un percorso alla ricerca di quella figura paterna, arrivando alla lezione finale più bella di tutte.

Guillermone bello ci assesta un manrovescio da poco stravolgendo la visione del burattino che abbiamo sempre avuto in uno dei finali più belli (e coraggiosi) possibili, sottolineando come crescere significhi trovare la propria strada da soli. 

Nel mezzo, il Gatto e la Volpe fuse in una macabra figura imbonitrice, il Paese dei Balocchi che diventa un centro di addestramento per Balilla, la ricerca di sé, il conflitto paterno (fantastico quello scritto per Lucignolo), la voglia di una famiglia o dell'essere accettati... tutti temi che questa pellicola porta avanti con lo sguardi fanciullesco di del Toro, ma accompagnato anche dal suo cinismo, che nella dolcezza piazza la realtà più dolorosa di tutte. 

Quella della solitudine.

Ma di una solitudine inevitabile e che porta a un nuovo inizio, come lo stravolgimento di un burattino che rimane sempre di legno, ma diventa un bambino vero comunque proprio per le scelte compiute.

Anche questo è qualcosa che ricollego sempre ai film di del Toro: la sensazione di non riuscire a spiegare a parole la loro meraviglia, il riuscire ad essere semplici ma, allo stesso tempo, guardare al di là del comune essere umano, come riesce a questo piccolo, meraviglioso film.

Certo, non si può però non citare un prologo estremamente lungo e delle canzoni una più brutta dell'altra. Nulla però che tolga potenza a quella sequenza finale di rara bellezza.

Mi porterò dietro questo burattino per molto tempo...






Commenti

  1. Bellissima recensione, nella quale mi rispecchio totalmente. La fedeltà in una trasposizione non è un dogma purché... la trasposizione sia ben fatta! 😂 come direbbe Catalano! Battute a parte, Del Toro come dici anche te lo specifica fin dal titolo che questo è un SUO film, quindi i puristi se ne facciano una ragione... questo Pinocchio è la cosa più bella che ho visto finora al cinema in questa stagione!

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