IL TOCCO DEL PECCATO, di Jia Zhang-Ke

Quattro storie cupe e violente nella moderna Cina dell'espansione economica. Un uomo vuole incastrare il capovillaggio, reo di aver svenduto la miniera comunale in cambio di mazzette. Un criminale irrequieto fa ritorno a casa, ma la via del male lo reclama. Una donna che lavora in un centro massaggi hard non parte con l'amante, ma la moglie di lui la cercherà. E infine, un giovanotto si barcamena in ogni tipo di lavoro, ma...

C'è sempre l'opera della maturità o quella della svolta. Oppure, molto semplicemente, quella che fa conoscere al grande pubblico, che è capriccioso e volubile per un'infinita serie di ragioni.

Jia Zang-Ke è sempre stato uno molto bravo, però un giorno - forse perché stufo di essere censurato dal proprio paese, anche se non so come andò qui - decise di dare una sterzata e il risultato è stato questo filmone. Il suo più commerciale, alla faccia dell'anatra laccata alla pechinese!

Jia Zhang-Ke è un cinese della sesta generazione che, quatto quatto, aveva girato i festival di mezzo mondo, diventando una sorta di habitué nei dintorni cannesiani, imprimendosi con una stile perfettamente riconoscibile in grado di valorizzare il territorio della propria terra - ma senza percussionista ghanese ricollocato in un complesso pugliese - così come il rapporto tra l'uomo e la natura, in contrasto col cambiamento industriale della Cina in piena espansione economica. 

Memore a tal punto era stato Still life (da non confondersi con l'altro bellissimo film omonimo di Uberto Pasolini) e, in qualche maniera, il semi/falso documentario 24 City, ma è qui che viene il balzo.

Non per quanto riguarda la qualità o lo stile, ma nella maniera di essere appetibile a quasi tutti, senza perdere un'oncia della propria personalità artistica. L'ambientazione è sempre il natìo Shānxī, ma potrebbe essere una qualunque parte del mondo.

Il suo film più commerciale, abbiamo detto. 

Non in senso di svendita al grande pubblico, ma per quanto concerne quell'influenza di stili, stilemi e tematiche che possono renderlo accessibile alla chiunque, questo senza svendere o svalorizzare il proprio talento o poetica. La sterzata la sottolinea già dall'inizio, con quei titoli di testa che rimangono ancorati all'arte cinese e alla sua conseguente cinematografia, per poi presentarci una sparatoria ad appena un minuto d'inizio. Un fenomeno isolato, perché si passerà il testimone al vero protagonista del primo segmento, e lì i rimasugli di un cinema di denuncia sociale continuano, mutati attraverso la conclusione ai limiti dell'exploitation.

Nulla di troppo efferato, per quanto le dinamiche rendano tutto così improvviso, inaspettato e, per questo, forse più forte di quanto non sia in realtà. Ma lo scatenarsi della violenza è l'hóngxiàn che lega tutte le storie. 

Stralci mai del tutto approfonditi di vite alla deriva e lontanamente ispirati a fatti realmente accaduti. Zhang-Ke segue i suoi personaggi con la solita classe che lo caratterizza, costruendo una narrazione con dialoghi diretti e non troppo articolati, che lasciano spazio a silenzi e occhiate chiare, limpide e senza troppi fronzoli. Lui ama il suo paese, lo si nota da come lo riprende, ma allo stesso tempo è preoccupato non tanto dal progresso economico e sociale, ma dalle bolle di povertà che questo lascia a chi, a differenza sua, non è riuscito a costruirsi una vita fuori dalla propria condizione.

Quello che caratterizza tutte le storie è una sorta di spaesamento che coinvolge tutti i personaggi, la loro solitudine in paeselli lasciati indietro, in preda ai voleri di padroni danarosi e di una conseguente rabbia che vuole esplodere nelle maniere più diverse. A farne un film estremamente atipico è proprio la sua innegabile vena orientata verso un mercato più ampio, però ancorata a un pessimismo totale che non lascia scampo a nessuno. 

Lunghi piani sequenza in citta degradate o rifornite di centri commerciali, alternate a scarpinate in strada di montagna dove la civiltà non è (ancora) arrivata, il senso di precarietà, l'impossibilità di costruire qualcosa, la misoginia imperante e l'alienazione di uomini ridotti a meri numeri negli ingranaggi produttivi del lavoro accostano un ritmo lento ma costante che non fa staccare mai l'occhio o ridurre l'attenzione.

Forse i collanti delle varie storie sono troppo deboli per una narrazione decisamente episodica - fin troppo - e corale solo negli intenti e nelle sensazioni, ma non mio sento di dare demeriti a un film che ha questa potenza visiva e tematica, un vero atto d'accusa a un paese amato odiato allo stesso tempo con tanta enfasi, dove le maschere degli spettacoli teatrali itineranti guardano con atto d'accusa noi spettatori e le pedine delle trame.

Il peso del passato grava sul presente, la violenza del reale non è il palliativo che loro avrebbero voluto, ma solo una discesa in un inevitabile oblio.

Violento e disperato, Il tocco del peccato non si fa dimenticare, ma si apprezza per la forza quasi primitiva della propria narrazione e delle immagini.

Jia Zhang-Ke è un regista che andrebbe nominato più spesso.

PS: a un certo punto nominano la città di Wuhan. Nulla di strano in realtà... ma è un particolare invecchiato decisamente male.






Commenti

  1. Jia Zhang-ke è forse il regista più importante che ho scoperto negli ultimi anni, film meravigliosi i suoi, alcuni anche più di questo già di per sé bellissimo.

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    1. Infatti parto da qui perché è lo spartiacque - e il più accessibile. Non vedo l'ora di vedere e parlare dei prossimi.

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Ragazzi, mi raccomando, ricordiamoci le buone maniere. E se offendete, fatelo con educazione U.U

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