VORTEX, di Gaspar Noé
Una coppia di anziani sposi cerca di sopravvivere alla frenetica vita moderna, mentre lui, ex giornalista cinematografico, cerca di scrivere un saggio sulla settima arte e il sogno, e lei ha una malattia neurodegenerativa che avanza sempre più...
A ripensarci, è il solo film di Noé dove una donna incinta non fa una brutta fine. Da una parte mi tranquillizza, dall'altra invece...
Eppure, inizia in maniera "normale".
Una coppia inquadrata da un rigoroso aspect radio 4:3, che ultimamente va tanto di moda. Una scena semplice e, sapendo quello che ci aspetterà, quasi straziante. L'ultimo momento di pace vissuto dai due prima che la malattia rovini tutto. In una scena c'è ogni grammo di affetto coltivato nei decenni vissuti insieme. Che Noé voglia comunicare questo con un'unica inquadratura, riuscendoci, è forse la vera sorpresa del tutto.
Poi quel dialogo tra lei e il marito, interpretato da un inaspettatamente bravissimo Dario Argento - altra sorpresona.
«La vita è un sogno?»
«Sì. È un sogno dentro al sogno.»
Uno scambio di battute che mi ha fatto stare male dentro.
Il film non è estremo, abbiamo detto, ma estrema è la sua genesi. Durante il lockdown Noé perse la madre e questo diede la base, insieme al gran tempo passato a strafarsi (su sua stessa ammissione) per partorire questo piccolo sforzo filmico, reso possibile anche per le modalità in differita con cui si ritrovò a girare a causa delle restrizioni in vigore. Si può dire che è un film spinto da una necessità profonda, e non voglio dire che la provocazione non sia qualcosa di meno impellente o ragionato, ma questo è un processo al quale il regista non ci ha spesso abituati e che mostra quel lato di sé che ancora mancava all'appello.
Alcuni lo hanno tacciato di pornografia del dolore ma la verità è che, a differenza da quanto fatto da Haneke in Amour, Noé non ricerca la catarsi e nemmeno qualcosa che dia senso al caos. No, a lui interessa solo - forse a livello di esorcismo - mostrare l'allontanamento causato dalla malattia e il vuoto che ci aspetta dopo.
I film di Noé vengono sempre girati quasi senza copione, lasciando gran margine di improvvisazione agli attori anche quando non professionisti. E se da una parte ci ha lasciato quel segmento iniziale da trapanatura nei timpani di Climax, qui vedere Argento destreggiarsi con gran naturalezza in francese lascia alquanto F4 basiti. Così come semi improvvisate sono le scene a seguire, per dare un senso di vera malattia, ma in realtà è proprio a quei due schermi nello schermo che dobbiamo prestare attenzione, a come le vite proseguano autonomamente pure quando condividono lo stesso spazio.
Si tratta di un'idea bellissima ma dal fiato corto che a tratti rischia di mangiarsi il film. La pellicola si prolunga, anche abbastanza inutilmente, nella ricerca di una quotidianità ossessiva dove una visione doppia impegna più del necessario, visto quello che si vuole raccontare.
Mezz'ora in meno (il film sfiora i centoquaranta minuti) avrebbe cambiato qualcosa? La routine di questi geriatrici offre qualcosa sul loro passato che, dopo quella bellissima prima scena, ci porta a un grado di empatia ancora maggiore? Il passato (e pure presente) di tossicodipendenza del figlio perché si prende tutto quel tempo, anche fuori dal contesto familiare? E il passato di Darione nostro, accennato in una scena, resta volutamente ambiguo o era solo una sensazione mia?
Noé non è mai stato una penna sopraffina. Il suo è un cinema di sensazioni in movimento che ti portano in un vortice (non importa quale) e anche qui, analogie di dubbio gusto con Annalisa a parte, il nostro rimane fedele alla sua tecnica che già dal titolo si palesa come una sua personale summa. Ma alla lunga possiamo dire abbia centrato completamente l'obiettivo, se nel trattare la profondità pure con Love aveva finito per girare su se stesso e farsi dei dannunziani autopompini di tecnica?
Tutto finisce nel nulla.
Anche l'amore che si è provato.
Ogni ricordo, di cui quella casa-magazzino è tappezzata, si tratti di foto, locandine, riviste e, soprattutto, libri, non serviranno a tenerci ancorati sulla terra quando la nostra ora giungerà e la malattia ci renderà degli estranei all'altro.
Un messaggio simile è di un cinismo allucinante e, proprio per il senso di nessuna speranza e la mancanza di catarsi che offre, decisamente coraggioso in un panorama come quello attuale dove manca la voglia di osare fino alle estreme conseguenze. Mosè Noé quindi prova un altro tipo di estremità rispetto al suo solito, ma oltre a questo sfoggio di freddo nichilismo di fronte all'ineluttabile, resta alto, oppure il senso di essersi fermati proprio un attimo prima del salto, di quel vortice del titolo, proprio perché in quanto tale da semplici umani non ci è possibile valicarlo?
Non so bene che sensazioni mi abbia lasciato addosso questo film. Da una parte estrema pesantezza e un inutile tirarla per le lunghe, dall'altra un particolare coraggio nel mostrare ciò che oggi è ancora tabù senza addolcire la pillola.
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