THE HERE AFTER, di Magnus von Horn
Pochi mesi prima mi era capitato di sentire una mia collega affermare, dopo aver visto in tv l'ennesimo servizio a proposito di Filippo Turetta, che individui simili (cito letteralmente) andrebbero ammazzati per il bene della società.
Personalmente, quando non ho nulla di intelligente da dire preferisco starmene zitto, e su una questione così delicata mi taccio ulteriormente potendo vantare il lusso di non aver mai avuto nessuna persona cara rimasta vittima di chicchessia, forse l'unica circostanza in grado di permettere una qualche freddezza analitica. Dall'altro, però, sono "tranquillamente" spaventato da tutto l'odio e la rabbia riversati continuamente non solo in rete, ma da come siano alimentati dai telegiornali, veri vaudeville di morbosità, e di come la vita possa diventare pericolosa anche per dei "semplici" imputati.
Che il mondo arrivi a farti preoccupare, con le dovute specifiche differenze, per un possibile omicida, la spiega lunga sul circo dell'assurdo che stiamo vivendo. Dall'altro mi è impossibile far notare come proprio nei paesi in cui si venera un libro fantasy nel quale una divinità onnipotente ha preso presso di sé assassini convertiti (Saulo, is that you?) e ordinato stragi di primogeniti, ci sia questa sete di sangue. Poi Nordio dà la colpa ai giochi di ruolo...
Per il suo esordio Magnus von Horn si aggrappa proprio a questa tematica. Se un ragazzo macchiatosi di un crimine terribile viene immesso di nuovo nella società, cosa potrebbe mai accadere?
Spoiler: nulla di buono. E fin qui grazie e Graziella. Quello che però il regista norvegese cerca di orchestrare col suo film, lontano da ogni sensazionalismo (sia un bene che un male, poi ci arriveremo) è una lenta analisi del territorio in cui il protagonista ha preso a muoversi fino a prima di quel terribile atto che condizionerò per sempre la sua esistenza.
Questo non è un film che consiglierei a cuor leggero, e non è per una questione di efferatezze grafiche varie (assenti e, in caso, avvengono fuori schermo), ma perché non mette alcuna speranza non tanto per la vita di John, che sarà rovinata per sempre così come quella di tutti coloro che hanno avuto a che fare con lui, ma perché sottolinea a più mandate come non vi sia possibilità di redenzione.
Non redenzione in senso assoluto, ma una possibilità di redimersi, che è una cosa leggermente diversa e sottile. Su questa sottigliezza poggerà l'intera pellicola.
In un'intervista, von Horn ha affermato come il gesto di John sia stato dettato dal mondo in cui è cresciuto, che tacitamente ha instillato i problemi di una figura maschile incapace di esprimere le proprie emozioni fino a quelle conseguenze estreme. Tutto questo viene mostrato coi modi tipici di un certo cinema europeo che si nutre di camere fisse e sensazioni asfissianti, ma che lentamente delineano un ritratto preciso e spietato.
Abbiamo così un padre incapace di gestire una situazione tanto delicata, un fratello minore che a una certa prenderesti a ceffoni, fino all'inquietante figura del nonno, un individuo che al di là della demenza che lo ha attanagliato, ha il "coraggio" di sparare a un cane presumibilmente morente senza il vagito di un'emozione che sia una.
Quella è forse la sequenza più agghiacciante, quella che meglio di altre rappresenta l'orrore silente e quotidiano di una qualsiasi società moderna, la sua mancanza di empatia e compassione e di approccio ad essa, che di pari passo vanno insieme al degrado cognitivo di un vecchio, portatore di un retaggio ormai desueto quanto i suoi stessi neuroni.
Efterskalv (il titolo internazionale si confonde con quello di Eastwood) lavora di sottrazione, così come il protagonista per integrarsi e non rimanere solo reprime la propria inclinazione alla violenza. Questo porta il film ad una parte centrale che avanza per inerzia e, alla lunga, nonostante gli ottimi intenti e gli eccellenti modi in cui vuole sezionare il concetto, comincia a girare in tondo. Infatti nonostante i cento canonici minuti di durata, quella perfetta per chi come me inizia a sentire la vecchiaia, si concentra in lunghe e lente sequenze, arrivando a non approfondire dove forse dovrebbe alcune reazioni, dando staticità perfino a dinamiche che avrebbero meritato altro trattamento.
La freddezza di un certo cinema europeo che si confonde con quella insita nel tratti nordici, e se a una certa va anche bene per quello che vuole mostrare, i tempi e la loro gestione cominciano ad apparire piuttosto sballati in quella che è la semplice economia cinematografica, dilungandosi dove forse non serviva e sbrigliando in maniera piuttosto frettolosa una scena finale bellissima, ma meritevole di altro trattamento.
Anche se, personalmente, la sequenza che mi porterò dietro per molto è quella precedente alla tanto agognata esplosione di rabbia.
Il padre deve parlare a John e invita la nuova fidanzata ad andarsene. Lei obbedisce, ma John le intima di restare, e questo ballo a tre continua per diversi minuti fino a che non accade un piccolo fattaccio.
C'è tutto lì, in quel triello di voci che si danno ordini a vicenda e dove John, perentorio, ordina a lei di rimanere seduta, senza darle possibilità di esprimersi.
Una scena semplice, lontana dalla durezza estrema che un film simile fa aspettare (senza mai darla, per fortuna da una certa) ma che nasconde un dettaglio fondamentale per capirne appieno l'anima, la stessa che gli abitanti di quel manicomio a cielo aperto di paesino svedese sembrano aver perso.
E in parte, noi con loro.
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