PRESENCE, di Steven Soderbergh

Una famiglia borghese americana, dopo un evento luttuoso che ha coinvolto la figlia, si trasferisce in una nuova abitazione. Sembra però che la casa sia infestata da una presenza...

La carriera di Soderbergh per me è un mezzo mistero, ma qualunque cosa io pensi, non posso negargli una classe sfacciata... anche nella produzione più becera o suicida - sì, Solaris, parlo di te. In qualche modo ne è uscito sempre se non proprio a testa alta, con la fronte rialzata, proprio perché a livello tecnico ha saputo mostrare del mestiere e, perché no, anche qualcosa in più.

Lui non sarà mai il mio regista preferito, ma mi incuriosiscono sempre quelle persone che riescono a padroneggiare tutti i generi. Passare da Effetti collaterali a Magic Mike e, perché no, Behind the candelabra e Knockout, è sintomo di grande versatilità.

A riprova poi che non sono solo i giovani a stare sempre col cellulare in mano, alla bell'età di sessantadue anni Soderbergh si mette a fare l'ennesimo film con l'iPhone. Unsane non era bastato e a quello ne ha fatti seguire altri due, l'ultimo è proprio questo. Presence è un horror sperimentale scritto da David Koepp, realizzato mediante l'uso di una semplice telefonia mobile, cosa che ha costretto il nostro a essere anche montatore e direttore dello fotografia (facendosi accreditare per quest'ultimo col nome della madre), pratica per lui in realtà abituale ma qui ancora più estrema nell'approccio.

La particolarità non è più in questo approccio, ormai sdoganato nel mondo del cinema, quanto nel fatto che un'intera pellicola dal punto di vista di una presenza fantasmagorica, effettivamente, s'aveva ancora da farsi. Ecco, quando una qualsiasi opera poggia su un'idea tanto forte, inutile a dirsi, può essere un problema. Un'idea la puoi esprimere in pochi secondi, un film deve reggersi su un minutaggio.

La durata di un film non è il semplice complessivo dei minuti, così come la lunghezza di un libro non sono unicamente il numero di pagine: è come usi quello spazio. Se in un romanzo occupi interi capitoli per raccontare storie che non mi interessano o non arricchiscono la vicenda narrata, sono inutili; in un film le varie parti sono i tasselli di un mosaico più grande che deve ovviamente avere una sua armonia compositiva.

Per farla breve (sto usando un sacco di termini che potrei impiegare per delle battute volgarissime...) Presence è un discreto esercizio di stile, ma l'idea con cui è stato realizzato si mangia la realizzazione finale, così come tutte le cose che vorrebbe raccontare.

E cos'è che racconta? 

Una famiglia disfunzionale, il lutto di una giovanissima, la successiva di lei scoperta del sesso, la mascolinità tossica e la scoperta del proprio valore da parte di un futuro uomo.  

Tutto questo, in ottantacinque praticissimi minuti.

Nessuna storia ha una tempistica stabilita, bensì una propria gestione cronologica. In pratica, non conta quanto ce l'hai grosso, ma come lo sai usare... tutto questo, senza tener conto dei tranelli spesso auto-imposti, perché la genialata che abbiamo pensato può essere ben lungi dal dimostrarsi pure pratica. Perché se ovviamente poggi solo su quella, nel nostro caso "il POV del fantasma", devi avere anche qualcosa con cui accompagnarla, una gestione del linguaggio e un discorso specifico in grado di trainare la questione.

In a violent nature era un film pessimo, ma provava a decostruire il linguaggio dello slasher. Presence invece? Si limita a raccontare una storia dal punto di vista di un fantasma. La storia però non è granché, duole ammetterlo.

Vi sfido, avete avuto abbastanza tempo per affezionarvi sufficientemente a qualsiasi dei protagonisti?

Oppure, la gestione delle riprese vi ha permesso di scoprire qualcosa che una narrazione più standardizzata non poteva fornirvi?

Lo script in realtà sembra la raccolta dei fondi di magazzino delle tematiche-tipo e il giochetto ideato da Soderbergh alla lunga stufa. Certo, rimane la sua summenzionata classe, la capacità di creare immagini intriganti con pochissimo e un'eleganza formale, senza contare che l'uso di un  iPhone gli permette di vorticare come un pazzo senza i normali impedimenti che un'attrezzatura classica comporterebbe negli spazi interni. Ma rimane tutto fine a sé stesso, una bellezza incapace di dimostrarsi altro, una serie di stacchetti, spesso inutili, che nell'economia complessiva non sempre hanno il giusto spazio.

Poi arriviamo a quel finale...

Una conclusione logica, bella, dove finalmente la ripresa volante assume un senso compiuto in grado di trasmettere qualcosa, il baluginio di un'emozione.

Ci arriva per sfinimento, dopo quasi un'ora e mezza in cui si è fatto desiderare e di non detti che però portavano in direzioni brulle. Però, nonostante tutto, quell'ultima sequenza qualcosa me l'ha lascata.

Forse un po' poco, però c'è stato.

La carriera di Soderbergh, comunque, continua ad apparirmi un mistero.






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