QUEER, di Luca Guadgnino
Queer era il film della vita di Guadagnino. Il mio entusiasmo si riassume nella frase cult di Sora Lella: annamo bene, annamo proprio bene...
Per il siciliano, il film dei sogni coincide con gli scritti di William Burroughs. Forse voi cinefili avrete sentito parlare di lui grazie a David "Dio" Cronenberg e quel suo capolavoro allucinato de Il pasto nudo, pellicola in cui il canadese si attenne giusto il minimo sindacale per fare lo stracacchio che voleva, anzi, girando intorno al romanzo per analizzare cosa aveva portato alla sua creazione. Per assurdo, l'unico modo sensato per adattare un qualsiasi scritto del Guglielmo tell dei poverissimi.
La scrittura di Old Bull Lee, come lo chiamava Jack Kerouack, non si presta alla narrazione nel senso più lineare del termine. Rappresentato controvoglia dalla Beat Generation nonostante la sua lontananza dal mondo hippie, fu (riassumendo) uno scrittore d'avanguardia che nella prima parte della propria produzione fuse in maniera sinergica il personale biografico con la tossicodipendenza che lo segnò per tutta la vita. Leggere un suo scritto equivale ad entrare nel suo vissuto, tra un'eterna fuga per uxoricidio, l'amore sporco e travagliato e, ovviamente, le droghe.
Viene naturale chiedersi cosa c'entri lo stile di Guadagnino, l'alfiere della bellezza estetica, il pigmalione degli amore contrastati, il cultore dell'inquadratura perfetta con gli scritti di Burroughs, che dello sporco, della sopraffazione e finanche dell'ambiguità morale erano i veri simulacri. Nulla, e infatti, per quanto - udite udite! - sia il film del Luca nazionale ad avermi irritato meno, mi sono reso conto che si reggeva su un controsenso. Non necessariamente un male, anzi.
Il vero artista è quello che riesce a farti a provare una sorta di empatia col peggiore dei soggetti, vero... tutto questo, senza negare tutte le bassezze che ha saputo disseminare nel suo percorso dell'eroe al contrario. L'arte ha il compito di dare una rotondità al male nelle sue sfumature, a tutti i livelli di malignità. Ergo, se guardando una trasposizione di Burroughs cogliamo solo la versione più tormentata della faccenda, avvolta in tonalità pastello, allora forse c'è qualcosa che non va.
Per quanto si tratti di un bellissimo vedere, ovviamente.
Non mi riferisco solo alla fisicata del fu James Bond, ma proprio all'intera struttura che sorregge il film, che volendo era anche il gap principale dei suoi antivegani. Quanti di voi hanno avvertito il sordido dell'intera faccenda, obbligo essenziale se ci affacciamo sul lascito artistico e testamentario di un autore che ha avuto una delle vite più travagliate della letteratura recente?
Guadagnino ricostruisce il proprio Messico a Cinecittà e inizia il film con un'inquadratura sugli appunti di Lee. Tutto è finto o da ritenersi tale, perché l'arte racconta la vita attraverso il proprio filtro deformante, così come ognuno deforma il proprio vissuto, Lee attraverso le droghe e Eugene negando la propria vera natura e non vivendo mai in fondo quella relazione. Tutto si basa su questo filo sottile che aprirà a quella parentesi nella jungla, alla commistione di anime e alla fusione delle menti per poter comunicare oltre quello che non si riesce ad esprimere con le parole - e qui stava anche la forza in forma scritta, che nelle parole era ovviamente obbligata dalla propria natura letteraria.
Ovviamente Guadagnino ci offre dei momenti di grandissimo cinema. Le scampagnate di Craig per la calle fotografate allo stato dell'arte, il trip con Eugene e quella scena finale di straziante bellezza sono un'overdose di celluloide per mano di uno dei più grandi registi in circolazione, ma come sempre mi succede coi film del nostrano rimangono momenti sì magnifici, ma di una bellezza fine a se stessa, che non aggiunge altro che la propria magnificenza a discorsi molto più bassi, collegandoli a una dimensione intellettuale estranea alla natura quasi primitiva che il contesto e la forma stessa originale comporterebbero.
La sensazione è quella di immergersi nel fango con gli stivali, quando invece servirebbe trattare il lerciume mostrandolo senza sconti, privandolo di quella patine addolcente.
Seriamente, chi di voi ha avuto indietro una vera sensazione di squallore, di contatto coi margini e di vera sofferenza, se non quelli gridati dai personaggi?
Resta poi tutta la questione autobiografica di Burroughs, qui affrontata in maniera borderline e confusionaria, specie per quanto riguarda la parte finale. A parte coloro già infarinati di base, chi ha saputo dare un giusta interpretazione al twist conclusivo, oltre a una simbologia che però potrebbe riguardare la qualunque vista la mancanza di riferimenti a cui affidarsi?
In realtà il film, come già detto, è quello del regista che mi ha infastidito meno, pur riconoscendogli tutte le sue idiosincrasie artistiche. Rimane comunque materia sua, legato ai suoi temi cardine e al modo di sviscerarli, ma appare sempre più chiaro che io e Guadagnino (che rimane un autore, qualora non si fosse capito) siamo due universi distanti che non si incontreranno mai, per quanto pure io riesca ad apprezzare l'innegabile bellezza che il suo occhio riesce a regalarci.
A me resteranno dei bei momenti e una fastidiosa nebulosità nei confronti di Eugene, quest'ultima forse non voluta dalle finalità artistiche.
Questo però può essere un demerito mio come del regista...
Resta il fatto che a due giorni dalla visione di questa scampagnata messicana è rimasto poco. Ancor meno che dei Panatta litigarelli, per quanto lì si raggiungano dei livelli di sberle sui denti irreplicabili.
Vero, sembra di immergersi nel fango con gli stivali... un film patinato, che rimane sempre in superficie e (per me) noiosissimo. Càpita spesso che un regista floppi il "film della vita" per ansia da prestazione, certo è che io in queste due ore e mezza di passione ci ho visto davvero poco. Ma ora Guadagnino piace a tutti per forza, mentre quando piaceva a me gli davano tutti contro. Eppure non lo faccio apposta, giuro!
RispondiEliminaFigurati io che non l'ho mai amato... 😅 Però davvero, ha un occhio che pochi altri possono vantare. Peccato sia tutto "tecnica e distintivo"...
EliminaOggi siamo in contemporanea!
RispondiEliminaSicuramente è il film di Guadagnino, tra quelli visti, che ho apprezzato meno, ma è anche vero che non conosco né capisco Burroughs, quindi non so se è un problema mio!
Infatti la dolce metà è rimasta dubbiosa proprio sugli aspetti autobiografici dello scrittore. Te però hai scritto un articolo bellissimo in merito comunque, va detto.
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