THE SURRENDER, di Julia Max

Dopo la morte del padre, Megan deve gestire i propri traumi irrisolti e le svalvolate mentali della madre Barbara, decisa a far risorgere il marito deceduto tramite uno strano rito appreso tramite la nuova passione per la filosofia new age. Qualcosa però...

Amore che vieni, cinefilia che trovi. Se una volta i koreani dettavano legge, hanno dovuto cedere lo scettro alla μεγάλο πουλί dei greci, i quali nulla hanno potuto contro le forze massive della A24 - per quelli che in classe dormivano, non è la Roma-Teramo, anche se è in parte nata sul suo cemento.

Siccome però le vacche grasse non ci sono più, perché è bodyshaming bovino, dopo diversi passi falsi e una standardizzazione nell'offerta sembra che i fan, più precisamente, i fan dell'horror, dopo il terzo mattino non guardano più a Est ma verso Shudder, perché non solo di elevated horror vive l'uomo. 

Shudder infatti ci ha donato un simpatico giocattolino come A wounded fawn e, molto più in sordina, il miglior film che nessuno di voi ha visto, quel What Josiah saw che già del titolo vi fa marameo con la manina. Proprio su quei lidi digitali è approdato questo titolo che, in tutta onestà, non avevo mai sentito nominare e ancora non capisco come mi sia capitato tra le mani. Magia del new age, forse, per stare in tema.  

Tra l'altro, la piattaforma da noi ancora inedita sta dando pane a un sacco di pellicole che avrebbero trovato poca risonanza nel pubblico generalista e in questo caso ha il coraggio di dare spazio a un'esordiente, tal Julia Max, un nome che è tutto un programma accompagnato dalla cazzimma necessaria per diventare il nuovo volto femminile nell'empireo degli autori horror moderni.

Perché sì, il film non farà miracoli, ma la brava Julia dimostra di avere le idee chiare su cosa e come raccontare le sue storie, facendo di necessità virtù per un film piccolo che però non ha paura di osare.

Questa ultima postilla non vuole inficiare un film come The surrender, che utilizza tutti i suoi novanta minuti per mostrare le varie sfaccettature dell'animo umano di fronte al lutto, ma è innegabile come la cineasta abbia saputo sfruttare ogni elemento possibile lavorando di una raffinata sottrazione che sicuramente è andata ad aiutare sul piano pratico, attingendo alla legge del "meno mostri, meglio è", da intendersi come palesamento visivo e non riferito alle creature nel portafogli immaginifico. Quelle, pur centellinate, ci sono e creano un uroboro concettuale bellissimo usando lo stesso sistema. 

D'altronde, parlare di un tema delicato come la malattia e la rielaborazione della perdita non è roba semplice, e una che inizia così dimostra un coraggio non da poco. Ancor più se nel sviscerare una tematica tanto importante vira il discorso nella maniera più inaspettata con la naturalezza che riesce solo ai fuoriclasse.

Perché la Max non avrà rivoluzinato l'horror, ma quella scena finale proprio non me l'aspettavo.

Prima di quella passa una notevolissima scena splatter, una zombificazione da manuale e dei flashback abbastanza agghiaccianti, mentre madre e figlia sono costrette dentro un cerchio magico. Intanto, intorno a loro accade di tutto, sempre affiorando dall'ombra che le circonda, lasciando intravedere quanto basta e consegnando l'intero film a un buio sorretto in maniera palpabilissima dalle sue interpreti.

Tra queste, spicca sicuramente Colby Minifie, la Ashley di The boys, finalmente in un ruolo principale capace di valorizzarla appieno. E per quanto nella serie Amazon che le ha dato celebrità sia costretta nella parte della macchietta, dimenticherete momentaneamente che dovremmo schiopparcela nel gran finale a breve per tutte le gamme espressive che riesce a sfoderare - anche se va detto che colleziona ruoli in cui viene continuamente vessata sul piano fisico, qui con conseguenze piuttosto estreme. Ma tra un urlo di terrore e un pianto per il ricordo del padre (e il tempo) che fu, mi sono sentito vicino a questa povera figlia.

Il film quindi prosegue, statico nella costrizione ma non nella fora, riuscendo a coinvolgere sofisticatamente e in maniera inaspettata. Certo, alcuni momenti si vede servono ad allungare il brodo e non viene mai approfondito il mondo delle ombre in cui si muovono e le regole che lo determinano, ma questa vaghezza (voluta) non è un pesa di fronte a tanta intelligenza di scrittura. 

Un'intelligenza che, parlandoti della morte, finisce per esaltare la vita di quelli che restano, delle relazioni umane e dei cerchi che vanno aperti perché gli altri possano entrare in noi. Una versione cheap di Relic, per certi versi, ma la pellicola della Max non intende avere la serietà e nemmeno il senso di incombenza del film della James. Al delirio lisergico preferisce l'arte del sapersi arrangiare, dello stratagemma visivo utile al camuffare le mancanza di fondi e l'ironia che in realtà è un vago sarcasmo che ricopre tutta l'inquietudine delle sue protagoniste. E soprattutto, non parla di un passaggio del testimone familiare, ma di come chi resta cerchi di trovare un senso alla paura di continuare da solo.

E nonostante un senso di cazzonaggine alla base e la trama che parte da un assunto già sentito altrove, a una storia che mi parla di questo non si può voler male. A prescindere. 

Quindi, pur con tutti i suoi limiti (che per assurdo, non sono proprio un limite) un film simile non può essere bocciato. E gli dobbiamo pure un po' di bene.






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