LA DONNA CHE CANTA, di Denis Villeneuve

Alla morte della madre, i gemelli Jeanne e Simon si trovano uno strano lascito testamentario: dovranno consegnare due lettere, una al padre mai conosciuto e l'altra al fratello che non sapevano di avere. Si recano quindi nella terra natia della genitrice, scoprendo così il di lei vissuto di cui non erano mai venuti a conoscenza...

Di tutti i libri letti negli ultimi anni, a contendersi il trono insieme ad altri titoli altrettanto fuori di testa c'è sicuramente Anima di Wajdi Mouawad, uno dei testi più originali su cui potrete mai poggiare gli occhi. Basti pensare che si tratta di un thriller... raccontato dal punto di vista degli animali. Sissignori, a narrare le vicende dell'indagine sono gatti, ragni e uccelli in cui si imbattono l'assassino e il marito della vittima.

Recentemente Fazi ha dato alle stampe Il volto nascosto, romanzo d'esordio del nostro, che però pur non lesinandosi diverse bontà ha fatto molta fatica a convincermi. Mi ha lasciato però qualcosa, come una fissazione che riguarda l'autore e che, giocoforza, negli ultimi tempi ha coinvolto tutto il mondo...

La guerra ha segnato fin nel midollo l'artista libanese, e fu proprio la guerra civile a costringere la sua famiglia a trasferirsi in Canada quando aveva solo dieci anni. Già solo nella sua striminzita produzione letteraria quella bellica è una ferita ben evidente, ma si dice che pure il suo vasto repertorio drammaturgico (quello è il suo vero campo da gioco, Mouawad è un rinomato autore teatrale) tratti l'argomento con tutte le variabili del caso. Uno su tutti, la piéce Incendies, ispirata alla vite dall'attivista Souha Fawaz Bechara.

Ella è colei che a soli ventuno anni tentò di assassinare il generale Lahad, dopo essersi presentata come istruttrice di aerobica della di lui moglie. Il militare fu colpito al petto e alla spalle, sopravvisse ma perse per sempre l'uso del braccio sinistro, mentre Bechara venne rinchiusa per dieci anni nella famigerata prigione di Kihyam.

Cosa le fecero lì dentro è ben riportato nella sua biografia, scritta insieme a Cosette Elias Ibrahim, altra prigioniera, che venne rilasciata nel 2000 quando chiusero la prigione col ritiro di Israele.

Fossi cattivo direi che le cose belle succedono quando Israele si toglie di mezzo...

Ad ogni modo, leggere e vedere storie simili mi fa ringraziare di essere nato in questa parte del mondo, quella sì una posizione da privilegiato. Non solo perché vivo in un paese dove non c'è nessuna guerra, ma perché sono stato libero di vivere la mia vita come ho voluto, un tetto sulla testa non mi è mai mancato e ho sempre visto il cibo a tavola tre volte al giorno. Soprattutto, ho avuto dei genitori che mi hanno insegnato a distinguere il bene dal male e ho potuto affinare la vista in tal senso, crescendo in un contesto che mi ha permesso di farlo. 

Cambiando anche solo una di queste variabili, forse oggi sarei una persona totalmente diversa.

Mouawad infatti, con la sua rilettura biografica, non parla tanto della guerra, quanto di come essa rimanga addosso alle persone. E nel farlo crea un elogio dell'amore, della pace e della tolleranza, condedolo con quintali di morte.

Che si arrivi a un risultato simili tracciando il percorso con le ossa dei cadaveri, per me è un mezzo miracolo. 

Incendies è un film lento, lineare nonostante i vari salti temporali, ma che ad ogni passaggio di trama riesce ad aggiungere un particolare che somma miseria a quella già esistente. Non c'è nulla che si salvi in questo excursus, e a un tratto viene da chiedersi come la soggetta sia riuscita a uscirne anche solo vagamente sana di mente dopo tutto quello che le è successo. Non raggiungiamo i deliri di Brimstone, perché c'è un limite a tutto, ma a memoria non mi sovviene un film altrettanto straziante e, alla fine, così umanamente complesso, nel tracciare la parabola dello scibile umano in un contesto sociale così particolare e segnato da aventi così terribili.

Ci si ferma sempre un attimo prima di strafare, non si cerca la morbosità del dolore o dello spettacolo gratuito e quel poco che ci viene centellinato ha una sua funzione specifica. E nonostante la parsimonia, lascia con la gola asciutta. 

Questo fu anche il film che lanciò definitivamente il nome del suo regista, quel Denis Villeneuve che oggi non ha bisogno di presentazioni ma che all'epoca era conosciuto unicamente dagli appassionati, sempre a proposito di gole asciutte, grazie a Polytechnique, una fredda e rigorosissima cronistoria che non lascia sconti, della quale questa sua gita in terra libanese sembra una naturale evoluzione.

Dalle aule di una scuola alle lande desolate della guerra. Dalla guerra interiore al disturbo esteriore per antonomasia.

Villeneuve con soli due film dimostrò una personale poetica, la stessa che miracolosamente non ha snaturò passando dalla parte malvagia del continente (l'America, non Arrakis) e che continua a portare avanti con ferrea convinzione. Ma per quanto anche qui la sua impronta sia riconoscibile dall'occhio più attento, la materia trattata scotta così tanto che pure lui, in barba alla propria bravura, preferì retrocedere dichiaratamente di alcuni passi.  

Incendies è forse il film dove il regista canadese osa meno in termini di messa in scena, attenendosi a un rigore formale ferreo totalmente asservito alla storia. Scelta forse insolita per uno che ci ha abituati a misurati guizzi e che, soprattutto, si fece conoscere oltre i confini per aver fatto lo stracacchio che voleva con un libro di Saramago, motivo che potrà destabilizzare i suoi fan dell'ultima ora che lo hanno conosciuto per i suoi ultimi exploit. Può piacere o meno come decisione stilistica, ma per quanto si tratti di un film magnifico, funge da spartiacque nella sua produzione anche per questo motivo.

Così come il colpo di scena, da alcuni ritenuto forzoso, ma comunque così devastante nelle sue portate da non perdere per il sottoscritto un grammo della sua potenza, pur asservendosi a una coincidenza geografica vagamente improbabile.

Vi sfido però, anche a mente lucida, a rimanere impassibili davanti a quella rivelazione. Vi sfido a trovare una conclusione così pertinente e bella a questa storia di odio e violenza.

Eppure ci viene detto tutto in quella prima scena.

Un bambino viene rasato da dei miliziani, la sua vita è già scritta in quel momento e il suo sguardo lascia presagire l'orrore che vedrà. Un orrore che nessun bambino, nessun essere umano dovrebbe vedere.

Ma da quell'odio nascerà altro ancora. E la chiusa di questa storia terribile metterà l'epitaffio a quella spirale di morte inutile, nella maniera più poetica di tutte.





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