EDDINGTON, di Ari Aster
L'idea gli venne durante la visita a un museo, quando vide un diorama di una tecnica usata dai nativi americani per cacciare il bisonte: portarli nei pressi di un burrone e accerchiarli fino a farli cadere dentro. Morì un anno dopo aver sviluppato la foto del diorama, che divenne un manifesto di come l'America stava gestendo l'AIDS.
Praticamente, con un solo scatto aveva fatto una grossa provocazione verso l'amministrazione dell'epoca, lasciando intendere come i cittadini soggetti alla malattia del secolo fossero intesi come un branco di bisonti, giacché appartenenti a una minoranza che il puritanesimo dell'epoca voleva nascondere sotto il tappeto. E Ariosto pare voler suggerire con la locandina promozionale come la gestione sanitaria pandemica, insieme a tutto il resto, sia qualcosa di molto simile (se non direttamente causa) di quello che successe.
Fossi cattivo, direi che è l'unica cosa buona di questo Eddington - la locandina originale poi è letteralmente anonima come da recente prassi
Ora, qui tocca fare una specifica, perché a me il cinema del nostro Ariosto garba, e pure parecchio. Avevo adorato Hereditary, Midsommar mi era piaciuto un botto e pure il suo controverso Beau is afraid mi aveva lasciato quelle sensazioni che solo le grandi opere riescono a restituire. Insomma, le mie aspettative erano alte, e forse questo ha influito, ma per amore di coerenza non posso esimermi dal dire che tutto ciò antistante i titoli di coda è un gran troiaio.
Aster ha più volte ribadito come il compito di un artista oggi sia quello di restituire un ritratto dei tempi folli che stiamo vivendo, e per quanto nessuno debba avere il patentino di specchiatore della realtà, va da sé che l'arte ha sempre cercare di sviscerare i dilemmi dell'uomo nei cambiamenti sociali e le sue dirette inquietudini. Non è qualcosa di immediato, spesso si tratta di consapevolezza falsate dal tempo e non è un caso che i recenti tempi pandemici siano stati toccati così poco dall'intrattenimento, il più delle volte con risultati disastrosi, proprio perché ne stiamo ancora subendo gli effetti o l'eco degli stessi. Forse è addirittura in atto una grande, silenziosa rimozione collettiva, il che ci porta al secondo punto della questione riguardante questo film.
Il regista e sceneggiatore non prende di mira solo il potere, ma anche le sue pedine. Fedelissimo alla propria poetica, non mette personaggi positivi, solo grandissimi coglioni esseri umani incapaci di decifrare quanto sta avvenendo intorno a loro e che nelle varie risposte semplici a disposizione cercano un rassicurante rimedio contro il caos. Tutto bellissimo come da programma, ma a una certa è inevitabile uscire dalla visione letteralmente frastornati dalla miriade di cose messe in mezzo.
Ben vengano il COVID e il complottismo, altrettanto bene la disinformazione da social e l'assuefazione generale per i contenuti immediati, ma quando entrano di mezzo pure le proteste per George Floyd e tutte le sottotrame a seguire la struttura inizia a scricchiolare, preda della propria bulimia espositiva.
È uno sparare continuo contro tutti e tutto, e pure i metodi non sono dei migliori, dato che si arrivano a parentesi che vorrebbero essere parodiche ma appaiono unicamente frettolose, semplicistiche e scritte male. Ariosto nostro non ha mai lavorato troppo di sottigliezze, spesso le sue trovate erano delle (bellissime) esplosioni di uno che non riusciva più a contenere il mondo assurdo che si teneva dentro, ma qui siamo di fronte alle uscite più boomeristiche che mi sia capitato di vedere, con la pretenziosità che lo ha sempre contraddistinto e che precedentemente invece poteva essere addirittura un valore aggiunto.
Qui invece?
Si sobbarca l'eterno compito di mostrare personaggi sgradevoli e discutibili, senza però riuscire a trovare la vera complessità dentro di loro.
Perché anche un complottaro può avere le sue motivazioni, le strade che lo hanno portato ad adottare una certa visione del mondo e, appunto, un suo universo interiore, che qui però appare minimizzato allo scopo di mettere sotto una lente derisoria.
La realtà è che nessuno ne esce fuori benissimo, né il protagonista né la sua nemesi pascaliana, ognuno ritratto di un'ipocrisia che sta sia dalla parte reazionaria che da quella progressista, ma nulla viene mai sviscerato a dovere. Pure l'inevitabile mattanza finale appare telefonatissima e quasi fuori tempo massimo vista l'esilità dei pilastri concettuali che la sostengono. Il che è un gran peccato, perché di cose su questi tempi matti, sugli estremismi che si stanno pericolosamente facendo strada negli animi dei comuni cittadini e della crudeltà fatta passare come forza... beh, credo che temi simili, specie da uno col talento di Ariosto, avrebbero meritato tutt'altro trattamento.
Invece qui mi è venuto da domandarmi se mi fossi abbioccato perché mi ero totalmente perso l'evoluzione dei personaggi di Emma Stone e Austin Butler, quando questa, semplicemente... è totalmente assente. Esatto, due attori così sono usati a mo' di comparsa.
C'è però una scena conclusiva bellissima.
Vediamo quanto la tempesta ha seminato, e ci viene offerto un riassunto perfetto di quella che è l'America di oggi: un'inutile celebrazione di eroi, emersi da un discorso di mera violenza, prontamente dimenticati subito dopo, mentre le costruzioni volute dai potenti vanno avanti, sunto di un progresso tecnologico che però non ci ha fatti minimamente progredire a livello umano.










Bellissima recensione.
RispondiEliminaGrazie 😚
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