THE RUNNING MAN, di Edgar Wright
Questo non li rende migliori o peggiori del resto della produzione dello squinternato del Maine, solo... diversi. Romanzi crudi, feroci, permeati da un forte pessimismo verso le istituzioni e la natura umana in generale ma, soprattutto, di dimensioni contenute - sappiamo quanto il nostro beniamino sappia essere prolisso. La prima comparsa nel mondo editoriale dell'alter ego del Re del Brivido fu Ossessione, recentemente ritirato dalla vendita su volere dello stesso autore, ma il primo ad essere scritto fu proprio L'uomo in fuga.
L'escamotage librario fu adottato perché all'epoca King non aveva ancora fatto il grande botto e il suo editore temeva di saturare il mercato pubblicando più di un titolo all'anno dello stesso autore, esaurendo così la presa sul pubblico, mentre lo scrittore invece volle vedere se riusciva ad eguagliare le vendite indipendentemente dalla presenza del suo nome in copertina. Il seguito diede molte risposte ad entrambi.
Per capire lo spirito con cui King scrisse non solo i romanzi di Bachman, ma proprio questo action distopico, a riprova che Hunger Games non ha inventato proprio una ciolla, bisogna analizzare bene il suo vissuto. Non era ancora sotto la cocaina come accadde in seguito (lui stesso afferma di non ricordare assolutamente di aver scritto Cujo) ma l'alcol gli faceva adeguata compagnia, si trovava in precarietà economica con una famiglia da mantenere ed era fortemente arrabbiato con gli organi governativi per via della guerra in Vietnam e lo scandalo Watergate, senza contare che l'avvento dei media televisivi lo inquietava fortemente. Questo clima molto rilassato contribuì alla stesura lampo del manoscritto, settantadue ore stando alle prime dichiarazioni di King, ma in seguito corresse il tiro allungando la finestra di una settimana.
Cinque anni dopo la pubblicazione del libro ne venne fatta una prima trasposizione ad opera di Paul Michael Glaser (sì, proprio lui, l'interprete di David Starsky) con Arnold Schwarzenegger, L'implacabile, che si prese molte libertà dal materiale di partenza ma che divenne ugualmente iconica a suo modo... il che ci porta ad oggi, alla visione di Edgar Wright e la sua crema di crema alla Edgar, che prima di iniziare le riprese ricevette la benedizione proprio dell'ex senatore della California, omaggiato in una piccola trovata stilistica.
Wright lo conosciamo tutti per la sua celebre Trilogia del Cornetto e, spiace dirlo, ad essa rimarrà sempre legato a doppio filo, quasi che quanto fatto dopo e in mezzo non risulti come una naturale evoluzione del suo percorso artistico, bensì una serie di titoli che pur con tutta la bontà a cui ci ha abituati (a parte Scott Pilgrim, davvero, non capisco cosa ci abbiate trovato...) finiscono per risultare come delle note in aggiunta a una composizione già perfetta di suo. Perché quando prendi tre generi completamente diversi, li disossi come nemmeno a uno studente del DAMS riuscirebbe e in mezzo ci cuci tre storie di crescita e maturazione... beh, sfido chiunque a far evolvere una carriera. La sensazione mi era rimasta con Ultima notte a Soho ed è ritornata anche con questo.
La questione è che omaggiare i cliché del genere costruendoci sopra una storia che ne parodi le tecniche narrative, rimanendo però coerente con gli intenti ridanciani e facendo diventare i perculi un vero e proprio motore analitico, è un'operazione più complessa e identitaria di una qualsiasi trasposizione, oltre al fatto che nessuno mi toglierà dalla testa che il contributo di Simon Pegg alla sceneggiatura abbia pesantemente influito. Qui ci troviamo invece di fronte a una trasposizione di un romanzo scritto più di quarant'anni prima, dal quale ha saccheggiato in maniera molto meno spudorata molto immaginario e che, per quanto profetico, risente anche di come i tempi siano cambiati.
Perché le crisi di allora, per quanto simili e accomunate dalle stesse paranoie, sono in realtà molto diverse da quelle odierne. Siamo diventati un'era molto più complessa, difficile da analizzare e nella quale pure le menti illuminate di un tempo stanno iniziando a cedere sotto l'inevitabile superamento a destra della realtà.
Insomma, anche se è un action, ci sono tantissimi fattori da tenere in considerazione per dargli la coerenza che meriterebbe.
Detta così sembra che non mi sia piaciuto, ma in realtà si tratta di un film adrenalinico, coinvolgente, di ampio respiro e, per quanto il messaggio alla base sia semplificato all'ennesima potenza, pure decisamente galvanizzante. Wright ha una capacità innata di girare le scene d'azione e di gestire al meglio gli spazi, facendoli diventare focus principale delle evoluzioni dei suoi stuntman, senza mai perdere il controllo e donando alle sequenze una fluidità che molti suoi colleghi si sognano. Da questo punto di vista, il film ne guadagna in ritmo, non ha un momento morto e non rinuncia alla sana dose di risate e divertimento che sono il vero marchio di fabbrica del regista inglese. Aggiungiamo poi che Glen Powell, ormai onnipresente e in completa ascesa, ha la giusta faccia da schiaffi e il phisique du rôle adeguato (spoiler: è quello che viene menato nella banca da Bane nel terzo Batman di Nolan) confermandosi versatile e in grado di reggere qualsiasi ruolo col giusto carisma.
Paga anche la maggiore fedeltà allo scritto originale, per quanto sul finale si conceda una libertà che però non stona troppo. Questo rende il film qualcosa di leggermente diverso da quello che avrebbe potuto essere, ma senza affossarlo.
Anzi, per assurdo è la realtà che fa pagare lo scotto maggiore. Oltre all'ambientazione originaria nell'anno corrente, fake news e alterazioni video spacciate per reali negli anni Ottanta erano fantascienza, oggi invece...










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