HOLD THE DARK, di Jeremy Saulnier

Un bambino viene rapito dai lupi. Il naturalista in pensione Russel Core viene così chiamato dalla madre, in modo che rintracci il branco e possa vendicare la memoria dell'infante. Ma andando avanti con la ricerca, Russel scoprirà una realtà ben più inquietante, al quale si unirà anche il padre reduce dall'Iraq...

Jeremy Saulnier è un regista che ho scoperto di recentissimo e con estremo entusiasmo. Uno di quelli che ti fa dire: finalmente uno che parla la mia lingua! Ho recuperato tutti i suoi film (o almeno, tutti quelli dopo quell'esordio che nemmeno i suoi fan considerano e che lui stesso rammenta con un certo livore) e sono arrivato alla sua quarta terza fatica, questo Hold the dark prodotto coi baiocchi di matrona Netflix. 

E sul fatto che quella piattaforma considerata da molti come il male del cinema ci abbia proposto titoli come I'm thinking of ending things o The irishman, beh, è un discorso già affrontato in precedenza e su cui non voglio dilungarmi.

Va anche detto però che quello era il "periodo d'oro" del colosso di Hastings/Randolph, quando andavano a pescare i registi in punta di lancio o che avevano progetti che non riuscivano a sbloccare da tempo (tipo Mank, in freezer dagli anni Novanta), però che uno come Saulnier salisse sul carrozzone non era una cosa scontata. Il suo stile ruvido, granitico e senza speranze di redenzione, quasi un biglietto di benvenuto per l'apocalisse, non si sposava molto per un pubblico teen-oriented, come sembra essere quello del servizio streaming. 

Quello che conta è che quel pazzerellone sia riuscito a fare quello che voleva, come voleva. E su questo si apre un'altra parentesi.

Ho letto che molti si lamentino del percorso discendente di Saulnier, dicendo che dopo quel folgorante finto esordio non sia mai riuscito a raggiungere le vette iniziali. Ecco, mi tocca dissentire. I suoi film, che completano una strana e ondivaga trilogia cinematografica dei colori - e Kieślowski muto! - sono ambetré dello stesso livello, solo che avanzando da una parte, il nostro finisce per fare un passo indietro sull'altra. 

Blue ruin era un film bellissimo, dove in alcune sequenze i limiti di budget erano evidenti, poi con Green room aveva mostrato di avere tecnica da vendere, salvo fare braccino corto coi personaggi, mentre qui butta sul piatto il gioco del simbolismo a discapito di una trama vera e propria.

Non che avere o non avere una trama sia un fattore positivo o negativo, ma se cercate una storia lineare e chiara da seguire, allora non vi azzardate a premere play.

Ancora Macon Blair come interprete e anche come sceneggiatore, per una storia che non è farina del sacco del dinamico due ma tratta da un libro di William Giraldi. Se il libro però accennava e pure in maniera abbastanza spudorata anche agli aspetti più scabrosi della vicenda, i due giocano di metaforoni, rendendo ancora più criptico l'insieme, tanto che servirà parecchia attenzione per comprendere tutto quello che vogliono dirci. Vi dico solo di fare attenzione alle fotografia per capire bene...

Di cosa parla questo film, però? Di tante cose, croce e delizia dell'intero progetto. perché se le atmosfere dell'Alaska con quel loro buio sono estremamente suggestive e i paesaggi innevati rispecchiano l'animo freddo e desolato dei loro stessi protagonisti, riuscire a portare tutto a una dimensione quasi totemica toglie ritmo e porta sulla tavola una bistecca troppo grande per il piatto, col rischio che strabordi e ti macchi i pantaloni. 

Parla dell'animo umano, della sua crudeltà, di come un ipotetico avvicinarsi alla natura non porti nessuna salvezza perché la malvagità sembra essere insita nel mondo, un agglomerato di causalità in preda all'anarchia dei fatti e alla legge del più forte - la scena dei lupi che mangiano il cucciolo, poi... Siamo un po' tutti Russel, forse il personaggio meno riuscito, che vaga nella foresta con lo sguardo smarrito, le scarpe di un altro e tante domande e fantasmi nella testa e nel cuore. Sotto un cielo che per gran parte della sua durata è buio, come lo è l'animo di chiunque, il nostro, se solo ha il giusto input per potersi scatenare.

Non mi pare un caso che l'unica scena ambientata sotto un sole che spacca le pietre sia quella in Iraq, dove la violenza è di casa e onnipresente, non nascosta dalla quotidianità.

Saulnier offre qui una delle sue migliori prove dietro la macchina da presa, offrendo un'ultraviolenza ancora più efferata delle precedenti e calibrata al millesimo, con una gestione degli interpreti e dei personaggi che in un'altra epoca avrebbe fatto scuola - sì, mi riferisco alla sparatoria. Purtroppo non ha la stessa compostezza in fase di scrittura e di montaggio, perché una qualche sforbiciata avrebbe giovato a un film davvero lungo e che nel mezzo vortica un poco su sé stesso, incantando con la bellezza delle riprese ma ponendo quesiti davvero giganteschi.

Ci parlerà di rinascita, anche. Una destinata a crogiolarsi nel proprio stesso male, l'altra più speranzosa, forse l'unico spiraglio di luce di un film che indossa e colora il buio stesso.

Per me, assolutamente da vedere. 

E non ha nulla da invidiare alle precedenti fatiche di questo adorabile stramboide. Anzi, a tratti mi ha ricordato Il buio fuori di McCarthy. 





Commenti

  1. Jeremy merita sempre di essere visto, sono d'accordo

    https://markx7.blogspot.com/2021/02/hold-dark-jeremy-saulnier.html

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, vero. È un film molto particolare che può legittimamente non piacere, ma crea "dibattito".

      Elimina

Posta un commento

Ragazzi, mi raccomando, ricordiamoci le buone maniere. E se offendete, fatelo con educazione U.U

Post più popolari