PENINSULA, di Yeon Sang-ho

Il virus in grado di tramutare la gente in zombi si è sparso per tutta la Corea del Sud, costringendo la popolazione a emigrare altrove. Quattro anni dopo, a Jung-seok, soldato in crisi per aver abbandonato la sorella e il nipote mentre si trovavano in mezzo, viene fatta una proposta che non può rifiutare: andare dentro i confini coreani per recuperare un portavalori pieno di quattrini. Facile a dirsi, ma... 

In quello che potremmo definire come "l'anno in cui Zack Snyder fa cose", tanto che non si può aprire nessuna pagine di cinema senza che schiaffino un articolo su di lui, ecco che esce questo film. Oltre alla macabra ironia di presentarlo alla festa del cinema di Roma, che si tenne fisicamente nonostante le restrizioni (e un film su un virus che zombifica non vuoi mettercelo?), ecco che il tamarrone più stiloso di sempre mi ritorna in mente perché sto film in pratica altro non è che Army of the dead, solo fatto da uno che sa dove posizionare la macchina da presa e che non ha passato tutte le ore di lezione alla scuola di cinema nel cortile a farsi le canne.

Insomma, Zacky-Zack prede bastonate pure dai coreani.

Dopo la parentesi di Seul station (più un ritorno alle origini, visto che esordì con i due macabri lungometraggi animati The king of pigs e The fake) quel bischero di Yeon Sang-ho continua ad espandere il suo franchise con questo film, rimaneggiato più volte in corso d'opera e ultimato della sua veste definitiva poco prima che la pandemia da COVID-19 prendesse piede, facendone slittare l'uscita di oltre un anno. Un film di cui, anche sulla carta, destava non poche perplessità viste quelle che erano le premesse del capostipite, quel Train to Busan che in pratica sembra essere piaciuto a tutti.

Ma innanzitutto... cos'è esattamente questo Peninsula (o per essere completi, cos'è questo Train to Busan presents: Peninsula)? 

Non è propriamente un sequel, dato che può essere comodamente visto in completa autonomia. È una semplice espansione dell'universo narrativo. Si sa solo che un virus ha fatto il casino e basta, finita lì, la Corea è isolata dal resto del mondo e #ciaone a tutti. 

Arrivati a questo punto, quindi, essendo persone mature, consapevoli e risolte, tocca ordunque porgersi un cruciale interrogativo... 

Aveva realmente senso di esistere questo ampliamento?

Fermo restando che lo formule assolute non esistono, che si può fare a meno di qualsiasi cosa poiché nulla è necessario e che l'abilità di un narratore sta nel cavare aracnidi anche dai fori più reconditi, cos'altro si poteva aggiungere a proposito di un film dove l'invasione zombie era un mero espediente per far riflettere su ben altro di più umano e complesso?

Il nipote statale dello Shinkansen funzionava non solo per tecnica e ritmo sopraffini (calibrate davvero al millesimo, specie contando che era il primo lavoro in live-action del nostro), ma perché era un dramma familiare travestito da horror. Come tutti i migliori racconti, usava il genere di appartenenza come tramite, non come fine, riuscendo però a rispettarne le regole e gli stilemi nei momenti essenziali.

Gli zombi infetti erano solo un arricchimento, infatti la loro genesi viene lasciata volutamente alla carlona, perché quello più importante era vedere come i rapporti tra i protagonisti si sarebbero riallacciati in mezzo a tutte quelle difficoltà - e con un atto finale da applausi nella sua semplicità.

Allargare qualcosa che parte prendendo in considerazione il micro, quindi, è fallimentare in partenza.

Abbandonati così gli spazi angusti del direttissimo ed esplorate le rovine di una metropoli abbandonata, il film perde gran parte della sua magia mettendo subito in chiaro quali siano le sue influenze. Si passa da Romero a Miller, fino a scenari post apocalittici alla Hokuto no Ken, tutte cose che funzionano e non sbagliano mai, ma che riecheggiano nell'eternità nelle memorie cinefile dando un senso comune di già visto, facendo risultare il film un parco di divertimenti che alla lunga stufa e non emoziona, pur mettendocela tutta.

Se nel film precedente Yeon Sang-ho aveva una (o due) storie da raccontare, qui sembra voler lasciar intendere che è pronto per Hollywood.

C'è una scena gladiatoresca che da sola vale la visione, ma quando un passaggio intermedio ha tutta quella potenza e non è un qualcosa che determina l'andamento principe della storia, allora... Houston, abbiamo un problema. Nulla di quello che viene dopo ha la stessa capacità, tanto che situazioni ben più importanti non reggono il confronto - tipo le motivazioni che spingono i personaggi - con risultati finali che, per quanto ben orchestrati, non reggono il confronto con quel disperato atto finale di quel padre inizialmente assente.

Restano solo tante scene d'azione, e su quelle Yeon Sang-ho ha mano ferma - oltre che un budget degno di questo nome. Un po' meno la capacità di usare la CG ma, per collegarci di nuovo a Snyder, 'sto film è costato la metà del suo delirio losangelino e gli effetti speciali sono fatti pure meglio, pur rimanendo la parte meno convincente del tutto.

Un clamoroso passo indietro, tanto che viene da chiedersi quanto la produzione si sia messa in mezzo per accontentare un mercato palesemente occidentale per stilemi e filosofia dell'intrattenimento. Si lascia guardare e in un paio di scena esalta pure, ma davvero, i precedenti fasti sono quasi totalmente da dimenticare. 

Una montagna che partorisce un topolino, quando prima avevamo un sorcetto che riusciva a scavare un'intera metropoli nel muro di casa.






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