PENINSULA, di Yeon Sang-ho
Insomma, Zacky-Zack prede bastonate pure dai coreani.
Dopo la parentesi di Seul station (più un ritorno alle origini, visto che esordì con due macabri lungometraggi animati) Yeon Sang-ho continua ad espandere il suo universo con questo film, rimangiato più volte e poi realizzato poco prima che la pandemia da COVID-19 prendesse piede e lo facesse uscire un anno dopo. Un film di cui, anche sulla carta, non ne sentivamo assolutamente la mancanza viste quelle che erano le premesse del film capostipite, quel Train to Busan che in pratica sembra essere piaciuto a tutti.
Ma innanzitutto... cos'è questo Peninsula (o per essere completi, cos'è questo Train to Busan presents: Peninsula)?
Non è un sequel, dato che può benissimo essere visto in completa autonomia, è una semplice espansione dell'universo narrativo che però ha solo i fatti principali in comune con gli altri due film. Si sa solo che un virus ha fatto il casino e basta, finita lì, la Corea è isolata dal resto del mondo e ciaociao a tutti. Ma aveva realmente senso di esistere questo ampliamento?
Il nipote statale dello Shinkansen funzionava non solo per tecnica e ritmo sopraffini (calibrate davvero al millesimo, specie contando che era il primo lavoro in live-action del nostro), ma perché era un dramma familiare travestito da horror. Usava il genere di appartenenza come tramite, non come fine. Gli zombi infetti erano solo un arricchimento, infatti la loro genesi viene lasciata volutamente alla carlona, perché quello più importante era vedere come i rapporti tra i protagonisti si sarebbero riallacciati in mezzo a tutte quelle difficoltà - e con un atto finale da applausi nella sua semplicità.
Allargare qualcosa che parte prendendo in considerazione il micro, quindi, è fallimentare in partenza.
Abbandonati così gli spazi angusti del direttissimo ed esplorate le rovine di una metropoli abbandonata, il film perde gran parte della sua magia mettendo subito in chiaro quali siano le sue influenze. Si passa da Romero a Miller, fino a scenari post apocalittici alla Hokuto no Ken, tutte cose che funzionano e non sbagliano mai, ma che riecheggiano nell'eternità nelle memorie cinefile dando un senso comune di già visto, facendo risultare il film un parco di divertimenti che alla lunga stufa e non emoziona, pur mettendocela tutta.
Se nel film precedente Yeon Sang-ho aveva una (o due) storie da raccontare, qui sembra voler lasciar intendere che è pronto a girare un bel blockbusterone a Hollywood.
C'è una scena gladiatoresca che da sola vale tutta la visione, ma quando un passaggio intermedio ha tutta quella potenza e non è un qualcosa che determina l'andamento principe della storia, allora... Houston, abbiamo un problema. Nulla di quello che viene dopo ha la stessa capacità, tanto che situazioni ben più importanti non reggono il confronto - tipo le motivazioni che spingono i personaggi - con risultati finali che, per quanto ben orchestrati, non reggono il confronto con quel disperato atto finale di quel padre inizialmente assente.
Restano solo tante scene d'azione, e su quelle Yeon Sang-ho ha mano ferma - oltre che un budget degno di questo nome. Un po' meno la capacità di usare la CG ma, per collegarci di nuovo a Snyder, 'sto film è costato la metà del suo delirio losangelino e gli effetti speciali sono fatti pure meglio, pur rimanendo la parte meno convincente del tutto.
Un clamoroso passo indietro, tanto che viene da chiedersi quanto la produzione si sia messa in mezzo per accontentare un mercato palesemente occidentale per stilemi e filosofia dell'intrattenimento. Si lascia guardare e in un paio di scena esalta pure, ma davvero, i precedenti fasti sono quasi totalmente da dimenticare.
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