THE WANTING MARE, di Nicholas Ashe Bateman

Nel mondo distopico di Anmaere la ricchezza più preziosa sono i cavalli, che vengono portati dai sobborghi della povera Whithren, dove vige un eterno e secco inverno (ma dove girano tutti in canotta...), al continente di Levithen, dove tempo, salute e amore sono condizioni d'eterna esistenza.

Il cinema, si sa, è fatto di tante teorie e alcune di queste riguardano quello che dovrebbe essere il ruolo del regista nell'economia narrativa della pellicola. Alcuni infatti sostengono che dovrebbe limitarsi solo a dirigere, mentre per altri ancora che dovrebbe essere anche autore di soggetto e sceneggiatura. Sull'essere anche interprete poi, nonostante nomi illustri, secondo una minoranza è la morte del cinema perché si monopolizza la materia in una maniera che non permette contraddittori e commistioni.

Su quest'ultima pratica però spezzo una lancia a favore, perché vedere il volto dietro l'idea e l'estro realizzativo ti permette di avere una faccia contro cui scagliare il tuo fastidio, a volte.

Nicholas Ashe Bateman infatti nasce come tecnico degli effetti speciali, avrete visto il suo operare dietro le quinte grazie al recente The green knight che, diciamolo, a fronte di un budget decisamente modesto su quel fronte si era fatta davvero tanta roba. Quindi il nostro decide di giocare uin casa e di realizzare il suo primo film da regista, avvalendosi delle proprie competenze per tagliare i costi, realizzandolo in un magazzino.

A parte alcune inevitabili riprese in esterna, quelle più "normali" viste le svolte narrative, il film è girato avvalendosi di un uso smodato di set extension e green screen che, stranamente, non donano nulla di troppo artificioso o irreale. Sono dosati benissimo e conferiscono al film un fascino particolare, mettendolo in uno strano limbo dove stanno quelle storie ambientate in ogni luogo e al contempo in nessun posto, quei racconti a metà strada tra l'avanguardia e il fiabesco - e il fare di necessità virtù.

Tutto questo, per dire che se non te lo vedi su uno schermo in superHD il film perde quasi ogni valenza e che, per dirla con tutta la professionalità che mi contraddistingue, mi sono fatto due palle così che ho dovuto vederlo a rate.

E dura poco più di ottanta minuti, sottolineo. Ottanta minuti di tormento hipster e "guardateH come Zono senZibbileH".

Cinque anni per girarlo in un magazzino del New Jersey e rielaborarlo tutto in digitale, questo film - che ho ribattezzato per l'occasione come Cavallo goloso - doveva essere il grande evento indie della scorsa stagione, prima che il Covid ci facesse cadere in una specie di distopia apparente, ma per me si è rivelato unicamente una grandissima sòla su tutti i fronti. 

Qui però vanno aperte delle belle parentesi...

Il cinema, come ogni forma d'arte, risulta essere soggettiva. Ci sono dei fattori oggettivi (tipo la regia di Snyderone, per dire), ma molto è dato da sensazioni, speculazioni e intuizioni che si rivolgono unicamente alla sensibilità dello spettatore. E come io posso apprezzare il #cinemadeglieccessi, qualcun'altro può trovarlo sgradevole e inutile, e sono ambedue opinioni che vanno rispettate, quando ben argomentate. Ma qui, mi spiace dirlo visto tutti i consensi che sta ricevendo nel resto del mondo, non ci ho visto davvero nulla da salvare.

Perché pupi usare pure tutta la sottrazione che vuoi, ma se non la sai usare il risultato è un pasticcio ai limiti dell'irritante che affossa qualunque buona intenzione di partenza. Se poi le intenzioni sono ai limiti dello stucchevole...

Come possa un mondo come questo avere una qualche forma di autosufficienza concettuale davvero non lo capisco - e sarebbe bastato dire ancora meno, senza arzigogolarsi in concetti che non stanno da nessuna parte - così come non mi spiego perché in quella che dovrebbe essere una specie di favelas tutti i personaggi siano delle specie di fotomodelli che guardano sconsolati all'orizzonte. Tra l'altro, unico spessore che si potrà concedere a troppi personaggi che si ritagliano il loro spazio in un minutaggio davvero risicato.

C'è anche la musichetta melensa onnipresente che a una certa non lascia scampo per tutta la seconda metà, oltre che degli attori che non sono in grado di comunicare alcunché se non una qualche forma di invidia per la loro bioimpedenza - o', stanno fisicati come in uno spot di Gucci.

Basta poco quindi lanciarsi in concetti di tempo passato, magia e amore in grado di rinnovarsi in più forme, se tutto il resto tracolla in una maniera così infantile, fastidiosa e approssimativa. Perché un conto è il budget rasente lo 0, un altro il voler fare il dritto a tutti i costi senza però avere il righello, o edulcorando il più possibile e puntando su uno stile visivo che sarà pure bellissimo ma, alla fine, lascia "solo" la propria bellezza. Effimera, come le controparti giovanili dei protagonisti, ma poco di più.

E quindi grazie Bateman, che mettendoti come co-protagonista nella prima parte di film mi hai dato una faccia da odiare per questo pomposissimo risultato finale.

Davvero, una visione estenuante...







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