FATHER AND SON, di Hirokazu Kore'eda

Ryota è un uomo ossessionato dal successo professionale, tanto da sacrificare molto del proprio tempo libero da passare con la bella moglie Midori e il figlioletto Keita. Un giorno però arriva una comunicazione: Keita non è suo figlio, nell'ospedale in cui nacque avvenne uno scambio. Conoscerà così la famiglia Saiki, molto più umile, e dovranno decidere il da farsi...

Negli ultimi anni ha conquistato il cuore degli spettatori occidentali un tal Hirokazu Kore'eda, tizio dagli occhi a mandorla fissato coi temi familiari che ha saputo sciogliere il cuore degli occidentali. Io, che sono famoso per non essere una volpe, mi sono sempre fatto scappare tutto quello fatto da questo regista, e dall'alto della mia maturità lo ho sempre chiamato "Graziealkazu", giacché ho l'umorismo di un bambino di tre anni.

Ho deciso di recuperare proprio col film che lo ha fatto sbarcare qui da noi e che, come attestato di stima, si è guadagnato un titolo (sbagliato) in inglese.

Sì, siamo un popolo strano...

Il cinema di Graziealkazu deriva da quella nuova ondata di nouvelle vague giapponese che si differenzia tanto dall'immaginario tipico che si può avere del filone. Siamo di fronte a uno stile asciutto, rigoroso, con inquadrature semi-fisse e dove a parlare è lo svolgersi e la conseguente analisi dei sentimenti e non l'estetizzazione di un certo cinema orientale, o lo sfogo ultra-violento/pop a cui si può pensare rispetto a un certo filone nipponico.

Sì insomma... quella roba che ci ha dato Hamaguchi.

Kore'eda realizza una pellicola 100% giapponese nelle tematiche, nell'indole e nella disanima dei propri temi, tanto che alcuni passaggi possono risultare quasi alieni o estremizzati a noi occidentali. No, non si tratta di ingenuità di scrittura, i giapponesi sono proprio così. Se hanno partorito una roba come Suicide club, vuol dire che con la responsabilità e il ruolo del singolo nella società devono avere più di un problema.

Tra l'altro, la traduzuione del titolo è errata sia per quanto riguarda la verisone nostrana che quella internazionale. 

Se Father and son vuol dire poco o nulla, Like father, like son è quasi ancora più errato, dato che quel Soshite Chichi ni Naru vorrebbe significare Diventare padre, e siccome il protagonista si trova già con un figlio a carico, quel titolo acquisisce ancora più importanza nel guidare lo spettatore verso i fini dell'autore nipponico.

Si può imparare a essere padri e le lezioni vengono in maniera inaspettata, e qui si apre un discorso molto ampio che, non essendo padre e non volendolo diventare, preferirei nemmeno compiere, ma le dinamiche che Kore'eda decide di prendere mi hanno lasciato parecchio perplesso, sia per quanto concerne la gestione dei tempi sia per (l'eccessivo) romanticizzare delle classi meno abbienti come portatori di verità di vita.

Sfavillare nel lavoro per far fronte a un'infanzia che di amore ne ha dato poco, elevarsi per sfuggire ai fantasmi di un amore mai ricevuto o goduto del tutto se non  fronte di una realizzazione personale. Questa è l'umanità del successo che Kore'eda mette a nudo, incapace di saper gestire qualcosa di simile (e grazie ar cazzo, vorrei dire...) ma anche tutte le sfumature dei sentimenti che si susseguono lungo il film.

Dall'altra, dei falliti (così li chiama Ryota) che nonostante i palesi limiti culturali ed economici però sanno essere incredibilmente uniti. 

E con la moglie bona anche loro, soprattutto...

Non per dare contro a tutti i costi con la commissione di Cannes, ma il film, per quanto mi sia piaciuto, presenta anche le sue belle ingenuità, per quanto favorite alle necessità narrative.

Kore'eda ha mano ferma e sguardo leggero - forse troppo, ma è una questione di gusti personali - nel tratteggiare una vicenda che avrebbe fatto esplodere la testa a chiunque, e tratteggiando personaggi che in questa situazione mostrano lati deboli, reali, sotto la maschera di successo che la società del lavoro vuole mettere a tutti i costi.

"... ma sei l'unico che può essere il padre di tuo figlio."

Lezioni di vita che vengono dagli ultimi, forse per questo abituati ad avere uno sguardo più vero sulla vita. Avrei preferito magari maggiori sfumature su quel punto di vista, che viene nell'incontro del padre di Ruota, particolare non troppo approfondito, perché ritrarre una famiglia unitissima solo come contraltare alla freddezza degli ambienti ricchi, come se fosse una Gardaland perenne, a tratti mi sembra quasi più semplicioso di tanto altro.   

Ma il Premio della Giuria l'ha vinto lui, non io. Ergo...

Di questo film mi rimarranno le sensazioni plumbee di molte sequenze, la delicatezza degli attori e quella camminata finale, in cui si decideranno le sorti delle due famiglie.

Forse la mia antitesi, il contrario di uno che privilegia il clamore, l'eccesso e la morbosità. Ma comunque, una storia molto umana.






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