BEGINNING, di Dea Kulumbegashvili

La Sala del Regno di un gruppo di Testimoni di Geova viene incendiata da un pugno di estremisti. Con tutta l'agitazione annessa, partono le indagini, alle quali la polizia sembra dare troppo poco peso. Questo porterà Iana, moglie del capo religioso, a mettere in dubbio quanto fatto finora e a interrogarsi sulla propria vita...  

Non so come e perché io abbia voluto vedere questo film. Forse per l'insana fisima di ogni cinefilo di dare fiducia a chiunque abbia un nome impronunciabile, quasi fosse una garanzia, o magari per via del connubio violenza-religione che da sempre mi inqueta e affascina al contempo. Davvero, ho provato a cercare le risposte in tutti i modi, ma senza successo.

Poi ho scoperto che era stato incensato da Guadagnino e da lì è arrivata la consapevolezza che certe domande devono rimanere per forza insolute...

Vabbeh, almeno è stato finanziato da Carlos Reygades.

Che poi... a far spaccare, in un film in cui non si riderà nemmeno per sbaglio, è il fatto che parla di Testimoni di Geova e la regista si chiama Dea.

Ok, la smetto.

Ad ogni modo, questo film datato 2020 è stato uno degli esordi più applauditi degli ultimi anni, lanciando la regista nel piccolo Olimpo delle cineaste da tenere d'occhio (tradotto, significa che la sua vita non è cambiata per nulla) nonostante sia uscito nel periodo peggiore possibile vista la pandemia che aveva costretto la chiusura delle sale. Non che la gente si sarebbe presa a pugni per vederlo, perché si tratta di un film particolare, particolarmente lento e, soprattutto, contemplativo, aggettivo che in un'epoca così veloce e interessata ai contenuti in sé più che al loro reale significato può essere quasi più antisesso di una giubba da thrasher per la stragrande maggioranza delle donne.

Il cinema contemplativo, conosciuto anche come slow cinema, è caratterizzato da una quasi assenza di montaggio e, al movimento della camera, preferisce concentrarsi sulla singola inquadratura che, come suggerisce il nome, l'occhio può analizzare nella sua più pura essenza. Perché l'essenziale non è invisibile agli occhi, è quanto ti rientra in quel fotogramma, che puoi ammirare in riprese lunghe attua a suggerire l'importanza di quella scena, della sua costruzione e di come l'immobilità funga da vera suggeritrice circa l'immagine posta nell'occhio della macchina da presa.

Quindi aspettatevi, in pura tradizione, inquadrature fisse, spesso mute, e dilatate per un tempo a tratti eccessivo per quelle che sono le canoniche regole di ritmo. 

Esemplificativa è la sequenza che vede la protagonista (una bravissima Ia Sukhit'ashvili) sdraiata su un prato e ripresa in primo piano per sei minuti consecutivi.

Ergo, se siete (legittimamente) ancorati a una narrazione lineare, chiara ed esemplificativa della cosiddetta "buona narrazione", vi conviene allontanarvi alla svelta da un film che potrà apparirvi fin troppo lento, a tratti perfino soporifero, e che ci impiega lo stracacchio di tempo che vuole per arrivare al focus della questione. 

Tutti gli altri... sicuramente ci sarà di che parlare.

La vicenda è stata ispirata alla regista dagli attacchi che alcuni Testimoni di Geova del suo paese dovettero subire, insieme all'isolamento della comunità ortodossa georgiana, ed è stato girato proprio nella città natale dell'autrice. Il discorso del male dell'uomo, molto caro ad Haneke (dichiarato maestro ispiratore) assume dei tratti davvero inquietanti proprio perché ha la capacità di metterci dalla parte più inaspettata della vicenda, sviscerando temi con tutto il distacco possibile che altro non fanno che aumentarne la claustrofobia narrativa.

La ripresa totale dall'alto in gergo cinematografico è chiamata God view, ed è proprio a quella che Dea Kulumbegashvili si affida per seguire le peripezie di Iana. Quando non sono quei sofferenti primi piani, ce la mostra dall'alto, appunto, favorendo da quella (a tratti abusata) angolazione una scena di stupro terribile e, per quanto castrata dalla distanza, indigesta proprio per il mancato sensazionalismo della vicenda. 

Si analizza così una figura femminile incredibile, una decostruzione delle realtà e delle comunità religiose ma, allo stesso tempo, di qualsiasi società che costringe a percorsi stabiliti e che mette le donne in un angolo. Non a caso, uno dei pochi momenti in cui questo film ebbe modo di vedere il buio della sala da noi fu durante delle iniziative contro la violenza sulle donne.

Tre anni dopo si spippettavano tutti quanti sulla Gerwig, per dire...

La sensazione, a film quasi ultimato, era quella di trovarmi davanti a una versione senza doping di Swallow, soprattutto per quel crudelissimo finale che dà la vera sferzata. Ma la realtà è che si tratta di due pellicole diversissime non solo per metodologie narrative, ma soprattutto per intenti.

Se Mirabella-Davis parlava del riappropriarsi della propria vita, lasciando una per quanto labile speranza finale della vita che riprende dopo aver mollato tutto ciò che ci collegava alla versione precedente di noi, la Kulumbegashvili crea una sorta di personalissimo inno all'ateismo.

Vi sarà solo la distruzione perché l'unica via concessaci di conoscere, il dopo non è contemplato ma, per quanto profetico di un nulla, poiché il mondo sembra invaso dal niente e dal caos, preferibile al presente che impedisce di vivere appieno la propria libertà.

Del nulla che seguirà dopo sembra esserne conferma il filmino finale che ci porterà ai titoli di coda. Tutto inizia per ritornare polvere, qualunque cosa succeda e qualunque vita si faccia, per un inizio infinito che forse porterà quella contemplazione del momento e dello sguardo suggerito dalle inquadrature così ostentate.

Film che, se seguito con la giusta attenzione, non può lasciare del tutto i differenti. Ma ne chiede, e pure tanta.







Commenti

  1. Bel post, interessante l'argomento che anche a me attira e inquieta nello stesso tempo.
    Ciao!

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    1. Grazie mille 😙 sì, interessante, anche se chiede molto. A breve dovrà uscire il secondo film della regista.

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