MISS VIOLENCE, di Alexandros Avranas

Al compimento dei suoi undici anni, la piccola Angeliki si suicida buttandosi dal balcone di casa propria. L'evento investirà come un fiume in piena la famiglia, facendo emergere una squallida verità... 

La questione qui diventa particolarmente imbarazzante perché io questo film lo vidi poco più o meno un anno dopo l'uscita, in un cinemino d'essai della mia città tirato su da qualche scappato di casa - l'unico modo, la distribuzione non fu particolarmente generosa. Ricordo che non mi piacque perché aveva una narrazione strana, disomogenea, e un finale piazzato così a caso da sembrare monco. 

Beh, lo era.

I tizi in questione non so come avevano una copia fallata per la proiezione, pertanto per anni sono stato convinto di aver visto un film che però era stato maciullato da un montatore rintrotore.

Averlo recuperato in forma integrale offre una visione e una proporzione decisamente diversa dell'opera e di quello che voleva dire, ma occorre fare una panoramica generale.

Miss Violence è un film del 2013, e chi come me iniziava a inserirsi nel mondo del lavoro dopo la prima decade degli Anni Zero ricorderà bene che periodo pazzerello fu per l'economia mondiale. Soprattutto quella greca, che risentì della falsificazione dei bilanci dei precedenti governi fatti per poter entrare nell'eurozona, dando inizio alla terribile recessione che portò il paese sul punto di uscire dall'Euro.

Insomma, senza entrare in questioni economiche (di cui conosco solo una minima parte) basti dire che se la videro brutta, ma molto brutta. E il cinema ellenico proprio in quel periodo reagì in una maniera davvero inaspettata. Quel simpatico zuzzurellone di Yorgos Lanthimos, ad esempio, emerse proprio in quel periodo.

Avranas è più dalle parti di Luton, anche se il film di Kostantatos è stato cagato praticamente solo da me e dalla mamma del regista, e nonostante il Leone d'Argento si è rapidamente estinto dalla memoria degli appassionati, complice una carriera del proprio autore che non si capisce ancora che strada abbia preso. Resta il fatto che fu un film abbastanza duro da colpire come un macigno quella specifica annata cinefila, e i premi vinti, così come le reazioni estreme che scatenò, sembrarono certificare la nascita di un nuovo autore.

Sapere poi che per questo film si erano ispirati a un fatto di cronaca... beh, il cinema mostra orrori di ogni sorta, ma la realtà che lo ispira a tratti riesce a superarlo.

Inutile dire che nella poetica del nostro, la vicenda assumeva un valore metaforico della decadenza degli ideali che aveva portato alla rovina stessa di un paese, rovinando così le generazioni più giovani che si stavano affacciando alla vita.  

Tutto il cinema greco a cavallo della recessione (a proposito, io sto ancora reclamando l'ora e mezza sprecata con Attenbourg) è stato fortemente influenzato dalla situazione socio-economica che il paese stava attraversando, ed sfogando col grottesco e l'estremo una frustrazione comune sono in qualche modo riusciti a creare una corrente che a suo tempo quasi scalzò i coreani dalle fantasie bagnate dei cinefili. Qui però siamo di fronte a qualcosa di incredibilmente simile alla corrente ellenica di quella prima decade, ma allo stesso tempo completamente diversa.

Certo, c'è la morbosità a tutti i costi, le situazioni al limite e quel senso di cupezza che investe ogni singola scena, ma viene abbandonato quel sentore di altro-mondo e si danno date e coordinate precise degli avvenimenti. La metafora avviene tramite il reale, l'immagine è specchio speculare di quanto sta succedendo, non più una sua proiezione, e proprio per questo fa una paura fottuta.

Poi sì, la tematica è raccapricciante.

Non credo esista colpa peggiore di quella mostrata e penso anche che, pure per chi ama l'eccesso come il sottoscritto, sia una tematica a tratti davvero insostenibile. Ed è difficile da trattare, perché l'idea di renderci dei voyeur di nefandezze è dietro l'angolo, così come il rischio di cadere sonoramente nel cattivo gusto più esagerato - che il suo contraltare, secondo Truman Capote, è la morte dell'arte, ma ci siamo capiti, spero...

Proprio per questo Avranas ha il grande merito di sapersi fermare appena in tempo, prima di eccedere, questo non senza essersi concesso la tematica più controversa per eccellenza e allisciandosi un paio di sequenze davvero disturbanti, che con quell'atmosfera fredda a là Haneke diventano uno spettacolo difficile da reggere, per quanto a cuor di celluloide sia mostrato proprio il minimo. Quel poco però basta e avanza per fornirci il ritratto di uno dei personaggio più spregevoli a memoria recente.

Così la famiglia, nucleo fondante di qualunque società, viene smantellato sotto i nostri occhi piano piano, componente dopo componente. L'iniziale confusione sui nomi e i ruoli ricoperti al suo interno sono le pennellate di un affresco di merda che verrà infine rivelato. Qui alcuni si dividono sul dover lasciare la soluzione all'intuizione dello spettatore, mentre altri rivendicano la scelta del regista. Dal canto mio, ambo le soluzioni sono eccellenti, ma avrebbero portato a esiti diversi. Avranas vuole dirci come siamo finiti a livello di società e persone, come l'avidità faccia perdere quel filo di umanità che ci rende persone tout court, fino a quell'epilogo.

Un finale coraggioso per un film da calci in pancia, che con quella sua conclusione mette l'ultima pietra tombale su un movimento culturale che per un breve periodo ci fece impazzire tutti, negandoci quell'ultimo afflato di luce che ogni cineasta greco si è concesso negli ultimi minuti: la speranza.

Anche nelle pellicole più esagerate, c'era sempre quella flebilissima speranza sul finale, uno spiraglio di luce soffusa a suggerire che a tutto quello c'era una minima speranza di risalita. Qui invece no. Ce lo fanno credere, ma è l'ennesima presa per il culo.

Tutto cambia per rimanere uguale.

Che i vostri avi siano maledetti, dal primo all'ultimo. Che la vostra vita si fermi sullo sguardo ultimo di quella madre disperata.





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