MR. K, di Tallulah H. Schwab
Poi ieri ho visto questo Mr. K e quella scintilla di cui sopra si è accesa.
Un film simile con me vince facile, anche perché già dal titolo richiama in maniera ruffianissima una delle mie passate ossessioni letterarie, Franz Kafka. Quel signor K del titolo (a ripensarci, per tutta la durata il protagonista non viene mai chiamato per nome) sembra riferirsi proprio al protagonista de Il castello, opera incompiuta dell'autore boemo che assurge comunque allo status di capolavoro letterario, qui rievocata prepotentemente pure dalla claustrofobica ambientazione e dalla sua importanza all'interno della storia.
Il termine kafkiano (Ma questo Kafkian, chi è? - cit.) è entrato nell'uso comune, ma va a intendersi correttamente quando si parla dell'umano costretto a reagire all'inspiegabile, specie quando gli viene posto con naturalezza da tutto il resto dei personaggi e allo sventurato, spesso da intendersi come un alter ego stesso dello scrittore, non spetta che subire le conseguenze di questa folle lucidità collettiva. È una parola facile da usare a sproposito, ma questa pellicola assurge a pieno diritto questa nomenclatura
La norvegese Tallulah H. Schwab, qui al lungometraggio numero due, non vuole semplificarsi la vita e imbastisce una storia volutamente assurda. Quello che meraviglia, specie contando che si tratta della sua seconda volta dietro la cinepresa, è proprio la capacità di dare una coerenza alla propria visione.
Parlare dell'assurdo non è facile come si pensa.
La weird literature, detta anche bizarro fiction, è una branchia della letteratura fantastica fortemente derivativa da quella dell'orrore che serve proprio a spiegare le inquietudini dell'uomo moderno, costretto in una realtà in veloce mutamento e che, proprio per via di questa sua rapidità, non riesce a comprendere appieno. Quando ci imbarchiamo in un'opera simile, è d'uopo aspettarsi che quanto sfugga alla nostra comprensione non sia necessariamente senza senso, semplicemente, ne segue uno proprio. La differenza tra un autore di razza e un improvvisato, almeno in questo genere, si vede da questi dettagli.
Lungi da me dire di aver capito tutto. Possiamo dire però che la coerenza stilistica della regista è innegabile e si fa apprezzare già dai primissimi minuti.
Pur ambientando la sua storia in quattro corridoi e un paio di stanze riesce a tenere il polso fermo sulla narrazione, creando una fluidità invidiabile nella messa in scena che ci accompagna in una storia non semplice, facendoci galleggiare tra le sue onde. La macchina da presa sa quando muoversi e quando stare ferma, non ci sono sequenze montate a caso e tutti gli elementi si incastrano tra loro con una naturalezza difficile da rendere in operazioni di questo tipo.
Poi sì, c'è da decifrare il tutto, e in questa indigestione di suggestioni che rimandano a Charlie Kaufman, Tim Burton, Guillermo del Toro e la voglia di assurdo a tutti i costi debitrice di Jean-Pierre Jeunet viene la confusione principale, tanto da chiedersi se la rapsodia di paradossalità non sia uno specchietto per le allodole attua a camuffare un vuoto concettuale di fondo.
Che è il rischio principale con ogni soggetto weird.
Indizi fondamentali però vengono rilasciati già nel bellissimo prologo: un mago capace di creare dal nulla che viene ignorato dai suoi stessi spettatori. Al quale poi segue, fugacemente la scena in cui, mentre si dirige verso l'hotel, prende in mano una formica.
La formica è segno di collaborazione, di lavoro di squadra. Isolarne una, oltre a richiamare la piccolezza, suggerisce il desiderio di sentirsi parte di un insieme. E perché mai uno capace di creare, di materializzare (apparentemente, altro aspetto lacunoso) dovrebbe desiderare questa vicinanza?
Nelle interviste la Schwab ha riportato il proprio desiderio di una metafora sociale sul controllo, tematica comunque presente, ma al netto delle possibili interpretazioni è proprio quella umana a farsi sentire maggiormente. A risaltare, così come ogni comprimario sembri personificare qualcosa dell'anonimo protagonista.
Certo, tra bande che richiamano una foga nascosta, vecchine che preannunciano un futuro di clausura a causa delle loro stesse paure, portinaie orbe per una visione distorta della realtà ed altre finezze varie, il film si auto-compiace di queste sue metafore tanto da rimanendone succube, vanificando a tratti la parodistica obbedienza di Glover.
Poi un ralenty - Snyder, sta' buono.
Quando la sotto-trama del "salvatore" raggiunge il proprio apice, il protagonista viene spinto, e quel tocco sembra far scattare qualcosa - che poi, loro chi possono essere, alla fine? Da lì (ma anche Magritte... ok, la smetto) parte tutto il delirio finale, che mi ha ricordato il bellissimo e altrettanto sconosciuto Dead dicks per le incursioni quasi cronenberghiane, che rende ogni possibile lettura opaca e rilucente al contempo.
Il desiderio di contatto, la lotta comune, la lettura personale della realtà e la capacità di contare su se stesso, di aprire un nuovo squarcio...
Verso dove, poi?
In una nuova concezione di sé, una nuova dimensione, un nuovo mondo, una salvifica consapevolezza...
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