UNA BATTAGLIA DOPO L'ALTRA, di Paul Thomas Anderson

Il French 75 è un gruppo armato di estrema sinistra che opera diversi interventi terroristici in giro per l'America. Quando la sua militante Perfidia Jones viene catturata, il di lei compagno e la figlia vengono nascosti sotto identità segreta, ma dal passato un generale ossessionato dalla donna interverrà per...

Vineland è un romanzo significativo nella produzione di Thomas Pynchon. Fu dato alle stampe dopo un silenzio editoriale di ben diciassette anni, durante i quali diversi critici affermarono che dopo il monumentale L'arcobaleno della gravità la vena creativa del nostro si era esaurita. Invece il re del postmoderno ritornò (sempre invisibilmente) sulle scene con un romanzo dalla struttura nettamente più semplice dei suoi precedenti deliri, ma dalla trama molto articolata.

Quel libro era da apripista per i temi che sarebbero diventati il centro focale di un altro suo lavoro, quel Vizio di forma che altro non era che un grido disperato di chi non si rassegnava al finire di un'epoca dinanzi al progresso yuppie.

Le avventure di Doc Sportello poi sono state trasposte al cinema da Paul Thomas Anderson, che con questo suo nuovo lavoro diventa quello che Frank Darabont (oddio... facciamo più Mike Flanagan, anche se i tempo snaturerà questo paragone) è stato per Stephen King, dato che a distanza di dieci anni è la seconda trasposizione del neworkese adottata da uno dei più grandi registi viventi.

Ora, qui mi tocca far uscire l'indiano dalla riserva...

Perché se non serve un genio per capire che Anderson (da non confondersi con i tanti Anderson che abitano Hollywood) sia davvero un cineasta grandioso, mentirei se dicessi di "sentirlo mio", ovvero una di quelle firme a cui sono particolarmente affezionato. Trovo i suoi dei grandissimi film ma, a parte le avventure sotto anfetamina con Phoenix, nessuno di loro mi è rimasto incollato addosso. Non quanto avrei voluto, almeno.

Geniali, sì, ma... troppo perfetti. Così sfacciatamente grandi, a cominciare da Il filo nascosto, da crearmi una sorta di allontanamento anziché una passione smodata. 

Rimane però sempre un autore, ovvero qualcuno in grado di spaziare tra i generi mantenendo inalterato il proprio tocco, offrendoci così una sua particolare visione del mondo. E non poteva essere altrimenti con l'incursione più politica di tutte di uno scrittore che ha sempre fatto, sebbene sfociando in un complottismo figlio della sua epoca, un discorso piuttosto manicheo sul male collegato alla gestione dei fili che comandano la società.

Se prima però adattava quasi fedelmente quello che a tutti gli effetti è stato il romanzo più semplice di Pynchon (all'epoca Michael Connelly stesso applaudì l'ingresso del collega nello stuolo degli autori crime), a questo giro ne prende unicamente lo spunto, tanto da cambiare addirittura il titolo, creando il proprio pastiche personale per parlare dell'America e del mondo di oggi. Ovviamente, alla propria maniera - e in quella del suo autore di riferimento. Perché questo sarà un film di P.T. Anderson, ma anche non conoscendo il materiale di partenza potrei dire che poteva uscire benissimo dalla mente di Pynchon stesso.  

Possiamo quindi dire tranquillamente, e dopo aver visto il film capirete perché, che la coppia artistica di fatto ha generato un figlio bastardo perfetto.

One battle after another è un film sghembo, tirato per le lunghissime che però non fa annoiare nemmeno un secondo, crea un intreccio da manuale e dei personaggi che con pochissimo si imprimono nella memoria e, non contento, riesce addirittura a divertire con delle trovate ai limiti dell'assurdo. Soprattutto, cosa più importante, dato che una vera trasposizione non si vede dalla fedeltà alla mera narrazione dei fatti (vedasi alla voce Watchmen) mantiene intatto tutto lo spirito che era dell'opera originaria, pur trasferendo l'azione a un vago tempo presente e cambiando radicalmente le carte in tavola. Quanto raccontato nel film è una parodia dell'America trumpiana del giorno d'oggi, adoperando in maniera strafottente un discorso che accomuna ogni epoca, in barba a tutti i «si stava meglio una volta» che siamo costretti a sorbirci quotidianamente da chi ha la capacità di lettura di una sardina.

Se Pynchon puntava il dito contro il reganesimo e la sua war of drugs, Anderson mostra come lo spettro del suprematismo sia ancora vivo nelle stellestrisce che esportano democrazia nel mondo, mostra una mente ottenebrata dal successo e una lotta fallimentare che non ha portato i frutti sperati. Non ha pietà per nessuna delle parti in gioco, ma ci mostra comunque su quale riva intende approdare, offrendoci del grandissimo cinema come solo lui è in grado di realizzarlo (creare una sequenza al cardiopalma usando il dislivello di una superstrada non è propriamente da tutti) e allo stesso tempo si prende gioco dei valori fiondanti di un Paese che si poggia sul sangue e sulle contraddizioni, a cominciare dalla famiglia.

Curioso infatti come imbastisca l'intera faccenda su una costruzione familiare sui generis e sulla sua disgregazione, come a dire che la famiglia non è dettata dai legami di sangue e che l'ereditarietà può essere benissimo una scelta, non una matrice acquisita. Questo, in un mondo che volge verso il suprematismo, è un messaggio coraggioso come pochi.

Poi sì, in mezzo a tutto questo idromele di Odino, viene la mia solita problematicità con questo autore, che nonostante il secondo round con un testo di Pynchon non mi ha conquistato come quella sua incursione nella fattonaggine odontoiatrica.   

Ci sono tante parti risultatemi irrisolte, come il vagabondare di Perfidia, e altre concessioni alla blackexploitation del lunghissimo prologo che non ho trovato condensate in un discorso adeguato alla diegetica dell'immagine, così come molte motivazioni che nonostante l'impegno non sono riuscite a soddisfarmi. Ma riconosco che è esclusivamente un mio problema con un autore forse troppo grande e col cui (grandissimo, sottolineo sempre) linguaggio non sono in completa sintonia. Siamo amici di letto, non fidanzati.

Ma soprattutto, adoro quando il cinema e l'arte in generale, specie in tempi così bui, riescono a sotterrare sotto la risata sprezzante della satira tutte le idiosincrasia del presente e l'eredità che ci portiamo da un passato che tale non è mai del tutto.

Tra l'altro, non si osanna mai a sufficienza Sean Penn, che a sessantacinque anni freschi riesce ancora a bucare lo schermo in tutte le sue interpretazioni, pure in parti apparentemente marginali e negative come questa, segno distintivo appartenente solo ai grandissimi interpreti.

E comunque, per arrivare con una fisicata simile alla sua età ci metto la firma . 






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