UNA BATTAGLIA DOPO L'ALTRA, di Paul Thomas Anderson
Quel libro era da apripista per i temi che sarebbero diventati il centro focale di un altro suo lavoro, quel Vizio di forma che altro non era che un grido disperato di chi non si rassegnava al finire di un'epoca dinanzi al progresso yuppie.
Le avventure di Doc Sportello poi sono state trasposte al cinema da Paul Thomas Anderson, che con questo suo nuovo lavoro diventa quello che Frank Darabont (oddio... facciamo più Mike Flanagan, anche se i tempo snaturerà questo paragone) è stato per Stephen King, dato che a distanza di dieci anni è la seconda trasposizione del neworkese adottata da uno dei più grandi registi viventi.
Ora, qui mi tocca far uscire l'indiano dalla riserva...
Perché se non serve un genio per capire che Anderson (da non confondersi con i tanti Anderson che abitano Hollywood) sia davvero un cineasta grandioso, mentirei se dicessi di "sentirlo mio", ovvero una di quelle firme a cui sono particolarmente affezionato. Trovo i suoi dei grandissimi film ma, a parte le avventure sotto anfetamina con Phoenix, nessuno di loro mi è rimasto incollato addosso. Non quanto avrei voluto, almeno.
Geniali, sì, ma... troppo perfetti. Così sfacciatamente grandi, a cominciare da Il filo nascosto, da crearmi una sorta di allontanamento anziché una passione smodata.
Rimane però sempre un autore, ovvero qualcuno in grado di spaziare tra i generi mantenendo inalterato il proprio tocco, offrendoci così una sua particolare visione del mondo. E non poteva essere altrimenti con l'incursione più politica di tutte di uno scrittore che ha sempre fatto, sebbene sfociando in un complottismo figlio della sua epoca, un discorso piuttosto manicheo sul male collegato alla gestione dei fili che comandano la società.
Se prima però adattava quasi fedelmente quello che a tutti gli effetti è stato il romanzo più semplice di Pynchon (all'epoca Michael Connelly stesso applaudì l'ingresso del collega nello stuolo degli autori crime), a questo giro ne prende unicamente lo spunto, tanto da cambiare addirittura il titolo, creando il proprio pastiche personale per parlare dell'America e del mondo di oggi. Ovviamente, alla propria maniera - e in quella del suo autore di riferimento. Perché questo sarà un film di P.T. Anderson, ma anche non conoscendo il materiale di partenza potrei dire che poteva uscire benissimo dalla mente di Pynchon stesso.
Possiamo quindi dire tranquillamente, e dopo aver visto il film capirete perché, che la coppia artistica di fatto ha generato un figlio bastardo perfetto.
One battle after another è un film sghembo, tirato per le lunghissime che però non fa annoiare nemmeno un secondo, crea un intreccio da manuale e dei personaggi che con pochissimo si imprimono nella memoria e, non contento, riesce addirittura a divertire con delle trovate ai limiti dell'assurdo. Soprattutto, cosa più importante, dato che una vera trasposizione non si vede dalla fedeltà alla mera narrazione dei fatti (vedasi alla voce Watchmen) mantiene intatto tutto lo spirito che era dell'opera originaria, pur trasferendo l'azione a un vago tempo presente e cambiando radicalmente le carte in tavola. Quanto raccontato nel film è una parodia dell'America trumpiana del giorno d'oggi, adoperando in maniera strafottente un discorso che accomuna ogni epoca, in barba a tutti i «si stava meglio una volta» che siamo costretti a sorbirci quotidianamente da chi ha la capacità di lettura di una sardina.
Se Pynchon puntava il dito contro il reganesimo e la sua war of drugs, Anderson mostra come lo spettro del suprematismo sia ancora vivo nelle stellestrisce che esportano democrazia nel mondo, mostra una mente ottenebrata dal successo e una lotta fallimentare che non ha portato i frutti sperati. Non ha pietà per nessuna delle parti in gioco, ma ci mostra comunque su quale riva intende approdare, offrendoci del grandissimo cinema come solo lui è in grado di realizzarlo (creare una sequenza al cardiopalma usando il dislivello di una superstrada non è propriamente da tutti) e allo stesso tempo si prende gioco dei valori fiondanti di un Paese che si poggia sul sangue e sulle contraddizioni, a cominciare dalla famiglia.
Curioso infatti come imbastisca l'intera faccenda su una costruzione familiare sui generis e sulla sua disgregazione, come a dire che la famiglia non è dettata dai legami di sangue e che l'ereditarietà può essere benissimo una scelta, non una matrice acquisita. Questo, in un mondo che volge verso il suprematismo, è un messaggio coraggioso come pochi.
Poi sì, in mezzo a tutto questo idromele di Odino, viene la mia solita problematicità con questo autore, che nonostante il secondo round con un testo di Pynchon non mi ha conquistato come quella sua incursione nella fattonaggine odontoiatrica.
Ci sono tante parti risultatemi irrisolte, come il vagabondare di Perfidia, e altre concessioni alla blackexploitation del lunghissimo prologo che non ho trovato condensate in un discorso adeguato alla diegetica dell'immagine, così come molte motivazioni che nonostante l'impegno non sono riuscite a soddisfarmi. Ma riconosco che è esclusivamente un mio problema con un autore forse troppo grande e col cui (grandissimo, sottolineo sempre) linguaggio non sono in completa sintonia. Siamo amici di letto, non fidanzati.
Ma soprattutto, adoro quando il cinema e l'arte in generale, specie in tempi così bui, riescono a sotterrare sotto la risata sprezzante della satira tutte le idiosincrasia del presente e l'eredità che ci portiamo da un passato che tale non è mai del tutto.
Tra l'altro, non si osanna mai a sufficienza Sean Penn, che a sessantacinque anni freschi riesce ancora a bucare lo schermo in tutte le sue interpretazioni, pure in parti apparentemente marginali e negative come questa, segno distintivo appartenente solo ai grandissimi interpreti.
Probabilmente sono io, ma trovo sempre strano che così tanti trovino il cinema di PTA "troppo perfetto" o "freddo" quando per me è un casinaro che fa film principalmente perché si è affezionato a un personaggio strambo, a un'immagine particolare o a una battuta puerile (neanche siamo al minuto 5 di questo film è c'è un'inquadratura dal basso di un'erezione di Sean Penn). Tecnica a palate e ambizioni alte a parte i suoi film mi sono sempre sembrati meravigliosamente disordinati, forse anche perché raccontano spesso di un'umanità caotica e alla deriva; pure il Filo Nascosto lo vedo più come una commedia bizzarra su un bambino capriccioso che finalmente trova il suo kink, non ci vedo l'algida perfezione di un Kubrick o il maniacale controllo stilistico dell'altro Anderson, ma un cinema pieno di sporcature e deviazioni spesso non necessarie (anche spesso a scapito del film), e mi viene da chiedermi se questa immagine di perfezione non venga dall'acclamo universale di critica che accompagna quasi sempre una sua uscita, spesso in maniera esagerata (e lo dico da fan).
RispondiEliminaIn ogni caso molto d'accordo con la rece sui pregi e difetti di questo OBAA; anche a me piaciuto meno di Vizio di Forma nella diade Pynchon-Andersoniana, ma mi ci sono divertito lo stesso come pochi altri film quest'anno.
Beh è oggettivamente divertentissimo e divertito, tre ore che passano lisce come l'acqua. Già solo per questo è una mezza conquista - che poi, ce ne fossero di "mezze" come questa.
EliminaSul resto mi trovo solo parzialmente d'accordo, perché c'è sì il caos di quella stramba umanità, ma c'è un rigore formale nella messa in scena che sottintende un discorso alt(r)o che spesso per me di mangia il resto. Quindi sì scombinati,.ma con un controllo onnipresente che sento come una cupola di vetro.
Ci sta tutto, il trasporto emotivo è la cosa più soggettiva al mondo (tipo in questo film per me non esattamente pervenuto, anche se lo vedo come un difetto solo nel finale con la lettera); ci tenevo solo a smascherare l'idea di "autore genio inaccessibile" quando per me è anche e soprattutto un gran burlone
EliminaCome tutti gli autori geni inaccessibili 🤪
EliminaCome darti torto 😂
EliminaVado in questi giorni. Apprezzo il regista, ma non sempre. Paradossalmente, il film che preferisco è quello più algido e meno corale: Il filo nascosto, per me straordinario. Perfino Ubriaco d'amore mi dà il mal di testa. Vado, insomma, ma con aspettative normali.
RispondiEliminaEcco, Il filo nascosto come ho scritto, pur ammettendo si tratti di un oggettivo capolavoro non riesco ad amarlo come meriterebbe.
EliminaUbriaco d'amore proprio non l'ho capito...
Un buon film, un buonissimo film. Inizialmente e per parecchio tempo mi ha tenuto sull'orlo della poltrona. Paura! Paura di un'emulazione, paura di una profezia considerati i disordini appena visti. Paura, lo ammetto. Poi il film cambia mood passando da un genere o da un tono all'altro ma mi ha lasciato una certa inquietudine. Il regista ha una cifra abbastanza riconoscibile ma questo suo film forse ha preso una strada tutta sua, diversa dal suo solito. Satira, critica, il grottesco che non solo mette in ridicolo il 'sistema ' ma anche chi lo combatte. È una vera montagna russa come quella corsa su quella strada da procurarti una nausea neanche ci fossi anch'io lì dentro quell'auto. (Ho appena visto 'Vivere e morire a Los Angeles), le corse sono diventate un cult, certe riprese fanno la storia. Grande cinema dicevo, e tanta carne al fuoco.
RispondiEliminaDovendo dire cosa mi è mancato direi forse quella partecipazione emotiva (sentimentale) che in un film di questo tipo è relegata proprio in un angolino per me. Dovendo fare proprio le pulci direi che il doppiaggio in particolare di Di Caprio non mi ha fatto impazzire. Non lo giudico un capolavoro, ma grande cinema sì, piccole forzature, ma fanno parte del gioco. Il messaggio, quello è arrivato insieme a tutta la burla neanche poi così nascosta. I Pionieri del Natale?!? Ma daiiii!!! Non so se ne parlavano anche nel libro; ti dirò, il mio pensiero è andato a 'Eyes wide shut ' (la setta, il Natale). Notevole, notevole davvero.
In realtà quella del Natale è una teoria del complotto molto diffusa in America, ed esistono addirittura associazioni suprematiste legate alla festività.
EliminaPer il resto sì, notevolissimo, ma a 48h dopo la visione dei personaggi non mi è rimasto molto ammetto. Più i singoli momenti di grande (grandissimo) cinema, ma non un senso si "complessività", diciamo.
Vedo pullulare recensioni di questo film su ogni blog, e la cosa quasi mi commuove ;) la tua è molto interessante, come al solito, perchè fornisce un punto di vista anche "letterario", partendo da un romanzo che ovviamente non ho letto. Solo su una cosa non concordo: Sean Penn non mi pare proprio in grandissima forma come dici: bicipiti gonfiati dagli steroidi, mezzo curvo, pettinatura improponibile. Spero per lui che dipenda solo da esigenze di scena!
RispondiEliminaMacché, Sean è sempre stato fisicato, merito del suo passato da guappo 💖
EliminaPer il resto, grazie mille e speriamo che l'arte un qualche modo aiuti in questi tempi bui almeno nello spirito...