FRANKENSTEIN, di Guillermo del Toro

Una nave danese intrappolata nei ghiacci dell'Artico avvista un uomo ferito che vagabonda nel deserto bianco. Egli è il barone Victor Frankenstein, ed è braccato da un'orrida creatura. L'uomo racconterà che...

Credo che praticamente la chiunque abbia conosciuto il buon Guillermone, alias "Totoro san", grazie a Il labirinto del fauno, considerato da molti il suo capolavoro. Ecco, concentriamoci proprio su quella parola, capolavoro, e non tanto sulle questioni tecniche o artistiche che portano a riconoscere un'opera come tale, ma sulle dinamiche che trasportano l'autore nella creazione.

Credo che i capolavori spesso non siano frutto del solo ingegno, ma pure della proverbiale botta di culo. I tempi giusti, l'ispirazione giusta e, anche, la giusta età del narratore, quel particolare anfratto della vita dove hai ancora l'energia per fottertene di tutto e lasciarti guidare da un istinto che magari non avevi nemmeno preventivato.

Tutto il contrario del "film della vita", in pratica. Quel particolare progetto trascinato negli anni, rielaborato ad ogni occasione e che ha attraversato gli oceani del tempo (ooops... mostro sbagliato!) insieme al suo regista. 

Se state pensando al fare e disfare de L'uomo che uccise Don Chisciotte non è un caso, fortunatamente però la vicenda qui è molto più tranquilla.

L'amore di del Toro verso la creatura della Shelley risale a quando vide il film di James Whale ancora bambino, recuperando il libro dopo, e cova il desiderio di una propria personalissima trasposizione dai tempi della sua rivoluzione franchista. Il progetto però dovette accodarsi insieme alle mille questioni che, tra abbandoni tolkieniani e un Lovecraft che batte alle scrivanie della follia produttiva, si sono susseguite lungo la magnifica carriera del nostro. Abbiamo dovuto attendere l'intervento della N Rossa affinché il desiderio del messicano potesse esaudirsi, con tutto ciò che comporta il riuscire a coronare un sogno quando si è un regista affermato di sessant'anni. Non è ageing, ma come abbiamo detto, nei numerosi fattori che portano alla creazione di un capolavoro pure l'età dell'artista gioca un ruolo a dir poco fondamentale.  

Del Toro è in un momento del proprio percorso da cineasta che sta vedendo i forti cambiamenti di un'epoca, si sta ribellando all'uso dell'AI nel campo artistico ed è dovuto scendere a compromessi per quanto concerne la distribuzione, forte anche di alcuni insuccessi immeritati come quello del magnifico Nightmare Alley. In pratica, si ritrova in un mondo che non vuole investire in storie adulte, e si vede che è molto incazzato, quando prima sembrava più che altro spaventato per la deriva che stava prendendo la società. Il suo Frankenstein è un film che trasuda una rabbia non indifferente, perché perfino la violenza su cui non si è mai lesinato assurge un connotato quasi alieno alla produzione di un artista che da sempre ha voluto elogiare la vita in ogni sua forma. 

Ecco, questa sua peculiarità crea un particolare contrasto col materiale di partenza.

Un autore che possa definirsi tale infatti non si limita, quando deve trasporre, a una fedeltà pedissequa. Prende ciò che più gli interessa dall'opera di partenza e lo stravolge verso la propria poetica, creando qualcosa che possa dirsi suo in tutto e per tutto, anche di fronte a un tradimento. E così un romanzo che parlava della vita in maniera sgradevole, diventa un elogio della stessa.

Per farlo adotta dei tradimenti sistematici. Il primo riguarda il passato del protagonista, trasformandone l'infanzia felice in un rapporto di abusi che ripeterà sulla sua creazione, e il mostro stesso diventa una creatura simile ma diametralmente opposta a quella cartacea fin dalla fisicità: non più la composizione grottesca e inenarrabile voluta dalla Shelley, ma qualcosa che nel suo disgusto ha una valenza quasi angelica, portatore di un'innocenza che potevamo solo aspettarci da uno che ha sempre amato i mostri e ha favorito l'occhio della cinepresa dal loro punto di vista ogni volta, fossero demoni rossi o strani anfibi dai gusti culinari vicentini. O più in generale, un cinema dedicato ai reietti.

Il moderno Prometeo di del Toro quindi affianca il romanzo dell'Ottocento, ne diventa uno specchio che riprende sì tutto dalla parte del mostro, ma anziché abbracciare fino alla fine il suo dramma esistenziale ci porta all'innocenza perduta dello stesso. 

Fin qui, tutto bene. Il domiciliato di Guadalajara accompagna i suoi sempre nobilissimi intenti con quello che gli riesce meglio, stupire con le immagini, e io non so quanto i capoccia di Netflix siano intervenuti, ma certe sequenze sono da mandibola slogata.

Ciccio del Toro non fa sconti e nemmeno prigionieri, ci rapisce nel suo barocchismo che sporca continuamente con la rabbia di cui sopra, creando un film fin troppo crudo per il pubblico generalista e raffinato all'inverosimile nell'esecuzione. Ogni scena è nobilitata dalla sua estetica e solo per questo dovremmo essere felici di aver potuto vedere questa sua versione.

Ma rimane, come già detto, un inno alla vita. Un inno che parte dalla morte. Ed è l'alternarsi tra le stesse che non sempre viene gestito bene come dovrebbe.

Ho detto all'inizio che i capolavori spesso sono dettati dall'incoscienza e dall'inconsapevolezza. Qui, per quanto si parta da una base preesistente, si sente il desiderio covato da un autore rodato, che ha già detto molto di quello che voleva e che a tratti cade sotto lo stesso peso di quella storia covata dentro di sé da così tanto tempo. Una storia ragionata, orchestrata dettagliatamente in ogni aspetto e modifica ma, nonostante tutte le accortezze, ingolfata da un ritmo che a tratti incespica proprio perché avrebbe necessitato di maggiore snellezza, portata alle estreme conseguenze da uno studio tematico che finisce col mangiarsi proprio lo stesso cuore che si vorrebbe far rivivere.

Non aiuta poi una gestione dei personaggi secondari a dir poco non pervenuta, e se dei figuranti che assurgono il ruolo di figurina tematica rimangono più impressi e sfaccettati del personaggio della Goth, sacrificatissima nelle motivazioni, allora forse abbiamo dei problemi.

E  quel finale...

Comprendo il desiderio di trasmettere una qualche senso di speranza laddove abbiamo intessuto i fotogrammi della celluloide coi resti dei cadaveri smembrati, ma possiamo accontentarci di una conclusione simile, gestita dai monologhi di due personaggi che raccontano per due ore indisturbati per poi concludere in quel modo, con quei dialoghi e dopo quello che hanno attraversato?

Ciò che rendeva il romanzo della fu Godwin un'opera modernissima e struggente era proprio la negazione finale, quel vivere attraverso l'altro anche nelle forme più abiette, perdendo quell'umanità che si voleva ad ogni costo nel farsi riconoscere. Perché dietro ogni malefatta della creatura c'era un odio verso chi l'aveva creato e, nonostante tutto, un desiderio di essere riconosciuto da lui. Se Pinocchio era un burattino che doveva muovere i propri fili da sé, qui che vita possiamo ricavare?

Dieci minuti finali letteralmente buttati in vacca, una conclusione affrettata, vogliosa di quella speranza che ha sempre caratterizzato Guillermone bello, ma che non trova il baricentro desiderato.

Eppure, non posso dire sia stato un brutto film.

Sbilenco e raffazzonato come il suo mostro, ma comunque con un cuore pulsante e una bellezza formale impossibili da negare. Prometeo rubò il fuoco, Guillermo invece lo ha dentro di sé e pulsa fortemente. Questo a volte basta per un'intera carriera.






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