GOOD BOY, di Ben Leonberg
Tra l'altro, Linklater ci mise dodici anni a girarlo, io dopo undici dalla visione ho ancora male non vi dico dove per l'enorme rottura che fu il sorbirsi quasi tre ore di quella solfa...
Good boy (da non confondersi con l'omonimo norvegese) è l'esordio di Ben Leonberg e capita in un anno decisamente molto fortunato per l'horror, che ha visto questo genere fregiarsi di tutte le tematiche, derivazioni e stili possibili. Si aggiunge nella cucciolata adottando in tutti i sensi un punto di vista molto particolare e, soprattutto, una realizzazione sui generis, perché posizionare la macchina da presa ad altezza canide non è sufficiente per un'operazione che sui poggia tutta sulle spalle del quadrupede protagonista.
Per portare a casa l'osso il risultato è stato necessario girare il film in piccoli segmenti, pochi minuti al giorno in modo da non procurare un eccessivo stress alla star principale, col risultato che per completare un film di un'ora scarsa sono serviti tre anni - 400 giorni di riprese, per l'esattezza. Se pensiamo che il cane è proprio quello del regista, a cui è stato dedicato il film, e le location si contano sulle dita di mezza mano, ci accorgiamo che nonostante la distribuzione di Shudder stiamo sguazzando nelle lande più indie possibili, le sole ad aver potuto permettere un simile progetto.
Insomma, non serve un fiuto canino per sentire puzza di Boyhood da lontano.
Inutile però nascondersi dentro la cuccia. Per quanto si possa simpatizzare per questo film come solo a un cane riesce, va comunque ammesso che non è propriamente riuscitissimo, nonostante le intenzioni di puro pedigree: ovvero, raccontare una storia di malattia mettendo come protagonista un essere che non solo risulta incapace di comprendere appieno quanto sta accadendo intorno a lui, ma che avverte un pericolo silente che non può comunicare per ovvi motivi evoluzionistici. Basta ciò a porre il racconto in una dimensione di tensione che pochi altri avrebbero potuto permettersi anche con mezzi più consoni e ordinari.
La forza (e la ruffianaggine) di Good boy sta infatti in nell'adottare tutte le tecniche che isolino la componente umana, con tanto di trucco a là Snoopy nel censurare per quasi tutto il tempo il volto del padrone, per fare in modo che il sentore del maligno sia qualcosa di puramente istintivo, di un essere che di istinto vive e, in virtù di questo, nutre per il suo umano quello speciale affetto cinofilo che dona ulteriore drammaticità alla vicenda. Noi sappiamo l'ineluttabile che aspetta Todd, Indy invece no. E questo credo sia il particolare più agghiacciante del film...
Purtroppo resta tutto il resto con cui fare i conti.
Si pensa che quando si vuole creare una qualsiasi opera narrativa basti un'idea originale. Ora, appurato che la novità è la cosa più obsoleta che esista, va anche tenuto in conto che i vari lampi di genio non sono esclusiva dell'artista, ma di chiunque. Vi sfido a fermare cinque persone per strada e almeno tre di loro riusciranno a cavare fuori un'idea originale... eppure, a differenza loro, il vero autore si riesce a riconoscere per quello che riesce a costruire intorno alla propria intuizione. Perché senza una coscienza di quello che si sta facendo e che si vuole raccontare, qualcosa come Strange darling poteva essere una qualsiasi cazzatona da discount e non quella piccola bombazza che è stato. Idem per questo film, che nonostante tutte le buone intenzioni che si porta apprezzo cade sotto il peso della sua stessa idea.
I limiti sono il vero motore della creazione, ancor più della libertà assoluta, ma può succedere anche di rimanere vittime proprio dei paletti che ci imponiamo da soli e, beffa suprema, derivanti proprio da quell'idea che magari ci ha resi tanto fieri. Perché se una qualsiasi opera si basa proprio su di essa, e non tanto sull'architettura che serve a imbastirla, il rischio è quello di diventare i veterinari di se stessi e castrarsi da soli.
Che è praticamente quanto succede qui.
Nonostante la durata risibilissima, ormai vero must di noi argonauti del primo turno che ci addentriamo verso la vecchiaia, il ritmo latita. E se in uno scatto così breve comincia a sentirsi la stanca e l'incapacità di variare le situazioni in cui far esercitare il protagonista si manifesta pure con una certa involontaria sfacciataggine, voi potete mettermi tutti i punti di vista alternativi che desiderate, ma rimane il sentore di quello che inizialmente doveva essere un corto e che non riesce a tenere il ritmo su celluloide di un lungometraggio consono. Questa è l'unica cosa che mi viene da dire su questo film furbo, gestito abbastanza malamente e che, al netto di tutta la tenerezza possibile del peloso, alla fine non è che mi abbia lasciato granché, sia in termini di tensione che di epifania.
Certo, lode alle intenzioni, al provarci a fare qualcosa di diverso e tutto quello che volete, cosa che lo rende automaticamente preferibile a una qualsiasi trasposizione for dummies a opera di Muschietti, ma le cose vanno dette, al contrario di come farebbe un cane, senza peli sulla lingua - poi mi spiegate il senso di trasferirsi in un rudere quando si è moribondi?
Insomma, pronto a diventare il San Sebastiano di turno trafitto delle frecce degli emuli della Brambilla per aver bocciato il film canino per eccellenza dell'anno. Poi sarà che la vita da proprietario di un cane l'ho vissuta solo di riflesso, cosa che può sicuramente aver influito, ma a livella strettamente cinematografico questa è l'unica cosa che mi viene da dire.
Però, l'espressività di Indy è davvero allucinante.










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