SALTBURN, di Emerald Fennell

Oxford, 2006. Il timido e imbranato Oliver Quick fa amicizia con Felix, il ragazzo più ricco e popolare del college, sviluppando un'ossessione morbosa verso di lui. Quando Felix lo inviterà a passare un'estate nella tenuta di famiglia...

Tempo fa (ero ancora ventenne... sigh) un tizio delle parti mie, per non so quale motivo, si improvvisò cinefilo e tutte le volte che mi beccava ci teneva a informarmi delle ultime visioni. Nulla di male, se non che aveva una voce particolarmente acuta e la tendenza a strascicare le vocali. Anche qua, nulla di male, sia chiaro.

Il fatto fu che una sera , parlandomi dell'allora ultimo Sorrentino a una festa, uscì in un raro momento di silenzio con: «Miiii, vedessi che regiiiiia!», causando l'ilarità generale. 

Sempre alla stessa festa uno gridò a un microfono: «Ma lo sapete chi è il cane di Mustafà? Quello che lo pija in culo e dice che sta a scopà!»

Oh, io sono una mente semplice, se in una battuta dicono culo o scopà rido a prescindere. L'imprevedibile variante ridanciana è che quella battuta l'avevo già sentita. Quindi sì, ho riso (ah, il tizio lo aveva tirato fuori e avvolto in un calzino, particolare da non sottovalutare) ma ridere a una barzelletta che hai già sentito è sempre diverso rispetto a quando hai la sorpresa dell'imprevedibilità.

Saltburn è più o meno una roba simile.

Bellissimo, c'è pure uno che lo tira fuori, ma è come sentire una barzelletta che già sai. Non farà mai ridere come la prima volta.

Però, vedeste che regiiiiia!

La regia qui è di Emerald Fennel, una che aveva già dimostrato di essere una donna promettente e che ritorna sulle scene col grande peso dell'aspettativa sul groppone, perché dopo un esordio così chiacchierato il rischio di fare una richardkellata era proprio dietro l'angolo. Ma la nostra non ha paura di picchiare duro e si vede. 

Basta solo una delle prime scene: il protagonista che spia la sua ossessione dalla finestra, in giardino, ripreso di lato, la sua silhouette nera che infrange lo sbrilluccichio delle foglie della gigantesca siepe dietro di lui.

Un'immagine così, se si pensa alla regia come la banale capacità di ricreare immagini belle, basterebbe per una sola carriera, ma in realtà preannuncia tutto quello che il protagonista diventerà e rappresenterà lungo il corso della pellicola. Il bello è che è solo la prima di una serie di molte sequenze incredibili che avrebbero potuto riscattare praticamente la qualunque.

Gran parte del gioco la fa la fotografa di Linus Sandgren (Zacky, ti fischiano le orecchie?) che sposa più generi esistenti rendendo questo film un essere indefinito e curioso. Inizia come teen, con tutta l'ambiguità possibile verso una tale attrazione, proseguendo come gotico una volta arrivato nella magione, senza che mai un elemento prenda sopravvento sull'altro ma anzi, facendoli coesistere nel proseguo della storia.

Due ore di gola asciutta per la meraviglia.

Eppure... sì, tutto questo risulta come una barzelletta già raccontata. Non bastano i migliori attori del Commonwealth o la sceneggiatura più arguta se tutto risulta così... così... ecco, esiste una parola per descrivere qualcosa di bellissimo ma che non soddisfa? Perché la bellezza da sola non basta, mai, resta sempre qualcosa in più che possa elevare anche la più perfetta (e fredda) delle opere, laddove la freddezza non è un elemento indispensabile di quello che si vuole raccontare.

Saltburn parla, tra le varie cose, principalmente della ricchezza, del voler appropriarsi di uno status irraggiungibile perché il nostro ci fa sentire inadeguati, non all'altezza di come ci sentiamo o vorremmo essere. Posa questa volontà su un'attrazione malata, ai limiti della devianza (proprio perché ossessiva) creando un rapporto bilanciato da ambo gli estremi e illustrandoci uno spiraglio di vite umane degradanti.

Ricchi e bellissimi tutti gli altri, timido, impacciato e sempre in ombra (letteralmente, fateci caso) Oliver, che questa caratteristica trasformerà in tutt'altro nel finale.

Potremmo banalmente dire che le mire del protagonista siano prevedibile da ben prima della metà (e il film dura più di due ore) ma sarebbe riduttivo descrivere la non riuscita di una simile pellicola in questa maniera. Perché è vero che non conta cosa, ma come lo dici, ma se la tua narrazione si basa solo su una bellezza sì estrema ma totalmente fine a sé stessa che ha impatto sui momenti e non sul lungo periodo della durata?

Tutto in Saltburn è vacuo. Lo sono i personaggi, lo è Felix (che è solo figo e popolare), nessuno ha un'approfondimento adeguato. E la scusa del mostrare un ambiente vuoto non basta, perché anche la persona più superficiale ha una sua complessità e qui non risalta quella di nessuno. Un sacco di volti e nomi che fanno e dicono la loro parte (a parte la sorella, che ha un momento notevolissimo) ma senza una valenza simbolica o qualcosa che possa in qualche modo incidere sulla trama. Di alcuni si poteva fare comodamente a meno...

Quindi sì, abbiamo una trama prevedibile, con tanto di spiegone riepilogativo che gli toglie potenza, che cozza con tutta la potenza visiva mostrata prima. La Fennel ha grandi ambizioni, sa regalare sequenze iconiche (la masturbazione sulla tomba o il passaggio della salma, un uso dei colori definitivo!) ma alla fine deve semplificare tutto il bene mostrato, non sapendo coniugare un montaggio adeguato con la propria potenza espressiva.   

Saltburn è una grandissima occasione sprecata. 

Bellissima, a tratti anche coinvolgente e realizzata da una cineasta incredibile, con almeno due sequenze destinate a divenire cult, ma che si ferma solo dove la sua bellezza riesce ad arrivare.

Ma... miiiii, vedeste che regiiiiia!






Commenti

  1. Beh, insomma... conta anche come lo dici. Specie da una che ha vinto l'Oscar per la sceneggiatura. Che qui sembra scritta da un ragazzino delle medie (nemmeno troppo bravo)

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    1. L'ho ben detto 😅 in realtà la sceneggiatura mi sembra standard, a parte sul finale - lì involve proprio.
      Qui proprio capisci tutto fin dall'inizio...

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