LA ZONA D'INTERESSE, di Jonathan Glazer

La vita del comandante Rudolf Höß e della sua famiglia, mentre vivono vicini al campo di concentramento di Auschwitz, campo di sterminio che il militare gestisce in ogni operazione... 

«(...) Conserva il tuo buon cuore. Diventa una persona che si fa guidare soprattutto da un'umanità calda e sensibile. Impara a pensare e giudicare autonomamente. Non accettare acriticamente e come incontestabilmente vero tutto ciò che ti viene rappresentato. Impara dalla mia vita. Il mio più grande errore è stato credere a tutto ciò che veniva "dall'alto" senza osare d'avere il minimo dubbio circa la verità che mi veniva presentata. Cammina attraverso la vita con gli occhi aperti. Non diventare unilaterale: esamina i pro e i contro di tutte le cose. In ogni tua impresa, non lasciar parlare solo la tua ragione, ma ascolta soprattutto la voce del tuo cuore.»

Questa fu la lettera d'addio che Rudolph Höß scrisse al primogenito Klaus prima di essere giustiziato per crimini contro l'umanità.

Parlare di questo film è difficile.

Si corre con estrema facilità il rischio di valutarlo superficialmente, perché la particolarità della pellicola si può riassumere subito in poche parole (una specie di vita qualsiasi mentre a pochi metri si consuma l'orrore) portando a ignorare colpevolmente tanti piccoli particolari che ne costituiscono la grandezza.

In maniera insidiosa, quindi, avendo già compreso ciò che è lampante, si arriva a trascurare molto altro, dando addirittura interpretazioni sbagliate. Ci sono stati pure quelli e mi chiedo, a una certa, come sia possibile.

Questo perché l'opera di Glazer non è solo un film sull'olocausto o la banalità del male, ma abbraccia la deumanizzazione in senso lato attraverso vari aspetti. 

Fai ciò che ami e non lavorerai un solo giorno...

Del libro di Martin Amis conserva unicamente lo spunto. Via la satira attraverso la commedia romantica posta nel più impensabile dei luoghi, willkommen invece a una non-trama, molti momenti dove si dialoga del più e del meno, mentre il sonoro è vero co-protagonista. Anzi, a differenza di molti film similari sul tema, gli orrori dell'Olocausto avvengono fuori campo, mentre soffusamente sentiamo urla, spari, e in secondo piano i camini di Auschwitz si stagliano sullo sfondo posticcio.

A dominare il minutaggio ci sono questi tedeschi che parlano della loro vita, dei piani di qualcosa che, se non sapessimo cosa rappresentano quelle loro uniformi, potrebbe essere tutto e il contrario di nulla. Per dare questo senso di straniamento, Glazer ha passato sul set meno tempo possibile, piazzando una ventina di telecamere sul set e lasciando gli attori andare a briglia sciolta, recitando contemporanea in più stanze per dare maggior realismo.  

Höß è quindi una belva in ghingheri che esegue meticolosamente il peggiore dei mestieri, convinto di fare la cosa giusta, la moglie bisticcia con lui perché vuole mantenere quella sistemazione e teme un allontanamento per un cambio gestionale, i figlio giocano e amoreggiano, poi si organizzano perfino delle festicciole nel giardino...

Poi, tutto il resto.

Noi sappiamo. Non ci serve altro, solo quelle uniformi, quel parlare (nulla togliere ai nostri eccellenti doppiatori, ma va visto in lingua originale) e quel muoversi sul set. Il male del mondo è espresso in quelle sequenze che senza clamore o esagerazione ci portano nel mezzo del male più assoluto, quello che non si interroga, non pensa e crede di agire nel giusto. È per questo che il film appare agghiacciante, anche se alla fine chiacchierano e basta per un'ora e cinquanta. Sappiamo che successe e ci chiediamo, muovendoci in mezzo a loro, come fu possibile.

A questo poi si aggiungono particolari sempre più inquietanti, come l'avvenimento delle ceneri nel fiume, ad altri più suggeriti, tipo le domestiche giudee che troviamo in certi momenti attaccate alla bottiglia per motivi che possiamo ben immaginare. O la visita della madre, che anche lei, come noi, ammira sapendo, e si ritroverà a consegnare quella lettera che rimarrà segreta fino alla fine. Sono tutti piccoli momenti che arricchiscono, tra eventi reali e altri solo immaginati nella loro quotidiana ininfluenza, questa anti narrativa.

Oppure le riprese a infrarossi dell'unico momento di umana grazia di un film che sembra proprio spogliarsi dell'umanità in senso lato, come a suggerire qualcosa che sembra addirittura estraneo a quel mondo.

Ma poi, arriva quel finale. E il film raggiunge un altro livello di grandezza.

Di tutti i titoli che potevano venire in mente, io ho pensato a Sulla infinitezza di Andersson, a quella fotografia così ricercata per dare un senso di profondità. E ho trovato ai limiti del genio che, durante una fotografia così luminosa e quasi "piallante", avvenisse in quegli ultimi momenti questo gioco con le luci, discorrendo con lo spettatore circa la profondità che manca nell'animo umano e come un accenno di quest'ultima arrivi a un passo dalla fine, mostrando la fine stessa.

Mentre noi siamo a lì, a guardare doppiamente quello che verrà mostrato in un museo.

Tutto questo, nel suo semplice orrore, è un discorso che compie la quadra definitiva sul nostro mondo e il nostro guardare, sempre distaccato, a tratti incurante, la parabola totale del nostro essere spettatori asettici di uno spettacolo distante e lontano da noi. 

Nel ritirare l'Oscar al Miglior Film Straniero, Glazer ha compiuto quel contestato discorso circa quanto sta avvenendo in Palestina che gli è valso una lettera di protesta, più relativo appoggio a seguire. Quel suo intervento e il successivo attacco per assurdo impreziosiscono ulteriormente un film che sullo sguardo e ciò che rimane fuori dall'inquadratura fa il proprio perno, mostrando che nella storia non ci sono solo vittime e vincitori.

E che per passare dall'altre parte a volte ci vuole poco... 

PS: comunque, tra questo a Anatomia di una caduta, il 2024 sta finalmente portando in trionfo Sandra Hüller.






Commenti

  1. L'ho trovato anche meglio di "Anatomia di una caduta" che con una scena mi ha fatto un nodo allo stomaco. Doppietta notevole, ma questo, micidiale, ha cambiato il modo di raccontare gli Olocausti al cinema. Cheers!

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    1. Con tutto il rispetto per la Triet, ma questa è un'esperienza di oltre-cinema. Racconta quello che siamo pure oltre la materia trattata.

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  2. Terribile. In senso buono, certo ma, come hai detto tu, ti costringe a ritrovarti faccia a faccia con la tua (in)naturale disumanizzazione, a come ormai vediamo tutto come se non potesse mai succedere o come se non ci tocchi, magari perché lontano nel tempo o nello spazio.

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    1. Come raccontare tutto senza raccontare niente. A Glazer va riconosciuto un totale momento di genio.

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