BRING HER BACK, di di Danny e Michael Philippou

Dopo la morte del padre, i fratelli Andy e Piper vengono mandati da Laura, la madre affidataria. Inizialmente la donna sembra la madrina dei sogni, ma pian piano diverse cose iniziano a farsi molto sospette, a cominciare dall'altro suo figlioccio Oliver...

Talk to me è stato un super-successo inaspettato ma, al netto di tutte le interpretazioni scritte da penne molto più meritevoli della mia, la realtà sotto sotto era un'altra: al pari di Barbarian, si trattava di un banco di prova, un "vediamo come va" in grande stile per quello che i due fratelli terribili volevano realmente fare.

Il risultato del via libera che ne è seguito lo troviamo in questo Bring her back, fenomeno horror dell'anno insieme al Nosferatu di Eggers e il Weapons del già citato Cregger. 

Insomma, direi che a brividelli stiloselli questo 2025 sta andando decisamente benino... 

Con soli due film, gli ex Rackaracka hanno dimostrato di avere molto a cuore il tema della perdita e una particolare attenzione a tutte le questioni riguardo la salute mentale. Essendo figli di una madre gravemente depressa e nipoti di una nonna suicida, il lutto e tutta l'oscurità che si porta appresso si è insinuato molto presto nelle loro vite, condizionandone inevitabilmente la poetica, ma la genesi di questa pellicola è, se possibile, ancora più drammatica.

Durante il press tour hanno rivelato come a ispirarli sia stata la morte del figlio di una loro cugina, deceduto all'età di soli due anni, a cui il film è dedicato. Come se non bastasse, durate le riprese ha perso la vita anche un loro caro amico di famiglia, portandoli ad effettuare diversi cambiamenti in corso d'opera. 

Non stupisce quindi apprendere che pur di realizzare questo loro secondo lavoro hanno rinunciato a dirigere il sequel di Mortal kombat, rimanendo nella dimensione più indie e intima permessa dalla Roma-Teramo, la casa simbolo di un certo cinema fighetto.

Bring her back è il film che potevamo aspettarci da loro: ottimamente confezionato, con un ritmo perfettamente calibrato e un pessimismo di fondo che non risparmia nessuno dei suoi personaggi. Ma è anche una pellicola esagerata, urlata in tutti i suoi aspetti e, volenti o nolenti, pacchianissima nelle sue simbologie. Questo è il cinema dei Pippidù, prendere o lasciare; personalmente a me piace anche al di là del bene e del risultato finale, e a questo giro ho notato un vero e proprio passo avanti per come riescono a calibrare il loro talento narrativo insieme a quello che vogliono raccontare - c'è una sottile differenza, qualora non si fosse capito.

Se ne Il signor Scuotimano lo stile frizzantino serviva per smuovere una storia appena abbozzata (e, a voler far la parte di quelli cattivi-cattivi che urlano, pure a coprire delle ingenuità piuttosto lacunose di scrittura), nel secondo album, che è sempre quello più difficile nella carriera di un artista, pur dimostrando di non aver perso un grammo di cazzimma il dinamico duo decide di farsi un attimo da parte, quanto basta affinché siano le sensazioni dei personaggi a riempire lo schermo. 

Abbiamo sempre le iperboli registiche, le riprese sghembe a sottolineare come l'orrore sia entrato a gamba tesa nella storia e l'abbondanza di particolari truculenti quando serve, ma distribuiti in un film più lungo, che si prende i suoi tempi senza annoiare mai e, nonostante lo spoiler grande una casa fornito già dal titolo, in grado pure di lasciare qualcosa nello scavare in questa vicenda sì prevedibile, ma profondamente umana.

I Pippidù non vogliono addolcire la pillola: chi se ne è andato non tornerà mai indietro. Tutta la costruzione del film serve ad assodare questa certezza, non c'è un filo di speranza che permetta di risollevare un po' il fiato una volta che i titoli di coda iniziano a scorrere. C'è solo il combattere per rimanere in vita... l'unica che abbiamo.

Credo che prendere coscienza di un fatto simile sia una prova di coraggio enorme e trasporla in un qualsiasi media un'impresa davvero difficile. Non si è mai troppo pronti a una simile doccia fredda, così come ad accorgersi come il dolore ci riguardi tutti indiscriminatamente.

Bring her back diventa un film che punta il suo orrore sui corpi, siano quelli dei filmati di repertorio con cui inizia che quello coinvolto nella lenta metamorfosi che riguarderà uno dei personaggi, tutti lasciti di un dolore erosivo a cui rimane solo il rapporto con l'altro per uscirne. Ma ogni visione è deformata da qualcosa, ogni realtà viene restituita in una maniera altra in grado di allontanare dalla risoluzione.

Si dice che al giorno d'oggi l'horror sappia essere solo elevated. Io ho semplicemente visto un film sì bulimico, come sono i suoi autori cresciuti a pane e autodidattismo, ma anche in grado di raccontare una sofferenza personale senza filtri, con tutto lo strabordare tipico degli entusiasti che però non ho visto come un difetto, quanto una capacità di donare al mondo quell'energia in surplus tipica della gioventù che vuole gridare. E qui, signori miei, abbiamo davvero un pianto disperato.

Insieme a una Sally Hawkins che nonostante l'exploit con Del Toro non ha mai avuto la carriera che merita, ma in grado di ricordarci quanto le spetterebbe a pieno diritto con una sola occhiata.

Sì, se il film funziona gran parte del merito lo si deve anche a lei - e della sua eterna problematica con l'acqua.

Per il resto, spero che i due nipoti venuti bene di Crocodile Dundee non si facciano inglobare dalla Marvel o da qualunque altro franchise del cacchio, continuando per la loro strada, che appare già bella sterrata e lastricata di ottime idee.

Fun fact: Sara Wong è un'attrice veramente ipovedente, qui al suo esordio assoluto grazie alla madre che rispose a un annuncio di casting trovato su Facebook.







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