WEAPONS, di Zach Cregger

Tutti i bambini di una classe, tranne uno, una notte si svegliano e iniziano a scappare chissà dove, sparendo nel nulla. Gli inquirenti vagano nel buio (così fanno pendant...) e tutta la comunità sospetta della maestra responsabile della classe, ma...

Talk to me e Barbarian hanno in comune due cose: l'anno d'uscita e l'essere entrambi due opere prime. Inoltre i loro autori condividono la provenienza aliena a quella registica, con tutte le variabili del caso. Perché se i Pippidù erano dei videomaker su YouTube col canale Rakaraka, vero must dei giovanissimi australiani, Zach Cregger è stato un comico.

Ma soprattutto, entrambe le loro prime volte come registi sono state un banco di prova per testare una possibile seconda carriera dietro la macchina da presa. E visti i risultati raggiunti da entrambi il grande salto aveva da avvenire necessariamente con il secondo film, che al pari di un album è quello più difficile nella carriera di un artista.

I fratellini pestiferi li abbiamo visti con Bring her back, pellicola pesantissima e sofferta che prende in qualche modo le distanze dal loro debutto, togliendo tutta la caciara (anche tecnica) per restituirci un racconto rigoroso e senza speranza. Cregger invece si mantiene fedele a se stesso, mettendo la propria poetica sotto steroidi in quello che insieme ai due residuati di Canberra era il lavoro più atteso dell'anno e, si dice, il vincitore morale alla guerra dei biglietti staccati. Gli incassi infatti hanno quasi decuplicato il costo produttivo della pellicola, il che è ironico se si pensa che le avventure nel distretto Brightmoore avevano skippato la sala per accedere direttamente su Disney+.

Al di là delle vendite, che ci interessano giusto il minimo, la questione è che questa estate ha avuto due opere di genere, abbastanza diverse tra loro da toccare i vertici estremi della creatività, a dominare le chiacchiere cinefile. Si tratta dell'ennesima riprova di quanto la nuova ondata di horror autoriale sia in formissima, forse l'ultima forma libera in questa industria dominata dai franchise, e di cosa la caratterizzi. 

Weapons non è un "elevated horror", termine che ormai fa il palo con graphic novel quando si parla di fumetti. Si tratta di una pellicola di genere puro, quindi un'opera che non ha alcun interesse nello scardinare le regole che deve necessariamente adottare, non lesina nel gore e, soprattutto, per quanto sia formalmente molto elegante cerca di evitare il più possibile le virate arthouse a tutti i costi, favorendo un'estetica accattivante anche per il grande pubblico. Anzi, per quanto la divisione in capitoli e i diversi punti di vista adottati creino una narrazione decisamente più articolata, il nostro è devotissimo agli insegnamenti dei maestri, a quella vecchia scuola snobbata fino all'altro ieri che ha formato le fondamenta su cui si basa l'immaginario di molti tecnici attuali.  

Ecco quindi che la miccia che innesca gli eventi è qualcosa che, nella sua assurdità portata all'eccesso, potrebbe essere ordinaria. Questa è anche la regola d'oro di Stephen King, e difatti Weapons è stato lanciato come un film tratto da un racconto che il re del Maine non ha mai scritto. Che lo zio Stefano ne sia rimasto entusiasta invece dovrebbe fare preoccupare...

La realtà però, almeno per noi che siamo menti basiche, è che si tratta semplicemente di una storia accattivante raccontata con passione, ritmo e, perché no, anche la giusta dose di ghignate.

Il che però porge diverse questioni.

Raccontare ha delle priorità. Cosa ti interessa che si ricavi dalla tua storia, cosa vuoi sottolineare in quanto autore e, in special modo quando si parla di cinema, su cosa vuoi che il pubblico ponga lo sguardo, giacché devi guidarlo tu stesso posizionando la macchina da presa. Weapons, che se non l'aveste capito mi è piaciuto e pure un botto, queste questioni se le porge fino a una certa, e per quanto funzioni per la stragrande maggioranza dei minuti è impossibile finire la visione senza che alcuni punti non tornino. Io poi non sono un fan del discorso filosofico a tutti i costi, ma davanti a una narrazione simile viene da domandarsi come mai un regista come Cregger abbia deciso di adottare certe soluzioni per chiudere il cerchio del proprio film.

Abbiamo ripetuto fino alla nausea che l'horror è nato per dare un volto alle paure dell'uomo moderno in una società che cambia, e volendo fare un incredibile sforzo retorico potremmo dire che Weapons parli di manipolazione, che le armi del titolo siamo noi, condizionati dai media e quindi lanciati come pazzi con la bava alla bocca verso il nemico di turno. E dato che i genitori sono le principali pedine di ciò, vedasi il tenore dei commenti sul social dei boomer o l'età media di chi ha acquistato il libro di un certo generale, i bambini finiscono per essere la diretta conseguenza di questa operazione di mindblow collettivo.

Poi però la pellicola compie diversi balzi di lato e uno in avanti, finisce vittima del suo stesso giochino perverso e, a forza di collezionare suggestioni, si mette in mezzo a quello che voleva presentare tale Arianna al proprio amico Teseo. Quindi sì, tanta bellezza e divertimento, ma ci si sente anche un attimo dispersi in mezzo a questo viavai di roba sciorinata a raffica. E anzi, la sparo grossa... ho l'impressione che ai film di Cregger manchi proprio qualcosa.

Cosa mi rappresenta l'ologramma del mitra nella sequenza onirica di Josh Brolin? Perché la scelta di una voce narrante a caso, mai mostrata, o del richiamare la foto della bambina bruciata dal napalm nella corsa degli infanti? Tutte cose che rimangono lì ma che non hanno mai una vera e propria spiegazione, così come l'ambientazione stessa.

Resta poi il fatto che, in narrativa, quando si pone lo spettatore di fronte a un mistero che trascende ogni logica, cercare di darvi un senso porta spesso a un risultato deludente. Qui la scelta adottata è coerente è filologica con gli sviluppi scelti... ma perché fornire soluzioni, a tratti pure così scontate, quando l'ambiguità, il non detto e la mancanza di risposte di fronte al caos è forse l'estensione massima della paura umana? Per quanto tutto si ponga su un'interpretazione magnifica di Amy Madigan, risolvere il pasticciaccio così, per quanto accenni a uno strascico della vicenda nel finale parlato, lascia un vago senso di "Tutto qui?" di fronte a quello che l'ignoto avrebbe per assurdo potuto ampliare all'inverosimile.  

Una falla? Forse, ma se riesci a farmi bere due ore come se fossero acqua e mi offri certe sequenze così belle, unendo nell'ultima parte un registro ironico del tutto inaspettato ma perfetto... beh, c'è poco da dire. Hai vinto su tutta la linea. 

Anche se, dopo centoquaranta minuti di avvenimenti, mi sarebbe piaciuto sapere che ne è stato dei protagonisti dopo questa via Merulana di casotti.

Cregger, pur con quel senso di mancanza, io ti aspetto al terzo film. 






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